Con il ritiro dall’Afghanistan si è fatta più chiara e leggibile una delle strategie americane in materia di sicurezza e di controllo geopolitico planetario. L’11 settembre 2001 il territorio degli Stati Uniti veniva violato da agenti esterni, e con un attentato clamoroso. Era la prima volta. C’era necessità di una risposta immediata, e di una strategia di lungo periodo per «proteggere i confini».
Nell’immediato si decise l’invasione dell’Afghanistan per snidare i covi di al-Qaeda; si cominciò il 7 ottobre, anniversario della vittoria cristiana a Lepanto (1571). Ma dopo la caduta delle Torri si comprese sempre meglio che uno degli aspetti più pericolosi del terrorismo di matrice islamica consisteva nel suo radicamento su un territorio. Avere uno Stato significa poter disporre non solo di basi (o porti) sicuri per mantenere attività militari; ma vuol dire anche disporre di riconoscimenti internazionali e conseguenti alleanze – commerciali, militari, diplomatiche. Ecco allora la seconda guerra contro l’Iraq e l’eliminazione fisica di Saddam Hussein: una campagna menzognera (come si è poi visto) decisa a Washington e Londra ma le cui ragioni erano evidentissime (anche se poco pubblicizzate) a tutti i Paesi occidentali.
Con lo sbriciolamento dell’Iraq si toglieva, letteralmente, spazio fisico al terrorismo islamista. La reazione fu l’Isis, che conquistò terre nei deserti tra Iraq, Siria e Giordania, inserendosi abilmente nella controversia storica tra sunniti e sciiti. Il Califfato fu anche questo: luoghi per l’addestramento dei combattenti e lo stoccaggio delle riserve strategiche; e spazi mediatici, gestiti con regia sapiente: attentati di kamikaze in Europa, esecuzioni da prima del diluvio con gole tagliate, gente bruciata viva nelle gabbie date alle fiamme (un disegno simile sembra perseguito, in Africa occidentale, da Boko Haram, che massacra cristiani e rapisce ragazze: ma a quanto pare ad oggi il tentativo di insediare uno «Stato islamico» da quelle parti non è ritenuto un problema urgente).
Intanto cade (2011, in Pakistan) Osama bin Laden; scoppiano le Primavere arabe, che stanno nella stessa linea degli interessi di sicurezza americani: si sbriciolano Siria e Libia, i Fratelli Musulmani vincono le elezioni ma vengono cancellati dai militari in Egitto. Oggi sta affondando anche il Libano, che a quanto pare non interessa a nessuno. L’ago della bussola è puntato sempre nella stessa direzione. In anni più recenti il quadro è ormai chiarito: l’alleanza storica con l’Arabia Saudita e gli emirati minori è salva, si può persino aggiornare la fotografia del Medio Oriente con i «patti di Abramo», che sanciscono un’alleanza che da anni era già in atto fra Israele e i sunniti. Con tanti saluti alla causa palestinese e all’Olp, «colpevole» – fra le altre cose – di non aver saputo risolvere positivamente il problema di Hamas.
L’alleanza con l’Arabia significa anche mantenere vivo e vitale il secondo pilastro della politica americana dal 1945 in poi: quella specie di «egemonia del petrolio» che continua a rappresentare gli interessi comuni dei grandi blocchi militari e industriali, e che ha nel regno saudita il punto di riferimento essenziale per qualunque strategia riguardante il Medio Oriente e il mondo islamico.
Nella regione rimane un solo nemico, l’Iran. Ma a combattere con un avversario alla volta gli Americani e i loro alleati sono bravissimi, hanno messo a frutto l’esperienza necessaria col nazismo prima e col comunismo poi. E l’Iran ha un problema decisivo: nessuno si può fidare degli ayatollah, nemmeno Cina e Russia.
E comunque, la storia non è finita.
Dall’alto
L’Afghanistan risulta tra i Paesi più poveri del mondo perché gran parte della sua economia è illegale: non si possono conteggiare nel Pil i profitti e i posti di lavoro derivanti dal traffico della droga – consumata, naturalmente, in Occidente.
L’intero Paese è stato fotografato e memorizzato nelle mappe digitali dei satelliti, rivelando preziosi giacimenti di materie prime e terre rare. Grazie a quelle immagini si può calcolare che l’Afghanistan valga almeno 3 mila miliardi di dollari (il piano degli Stati Uniti per rilanciarsi dopo l’epidemia costa 2 mila miliardi; i soldi che arriveranno in Italia dall’Unione con il Pnrr ammontano a oltre 200 miliardi). Su questi giacimenti ci sono già potenti opzioni della Cina: e questa è una ragione più che sufficiente per motivare l’interesse di Cina, Russia, Turchia e India per colmare il vuoto lasciato dall’Occidente. Per altro il disastroso ritiro da Kabul ha fatto tornare d’attualità la questione di un esercito e di un sistema difensivo europeo più autonomo dagli Stati Uniti. Nella logica dell’industria militare questo significherebbe anche l’opportunità di riaprire la strada a molti «buoni affari»…
Quel Grande Gioco
L’Afghanistan rimane lo scacchiere principale del «Grande Gioco» iniziato due secoli fa: l’incrocio di azioni spionistiche, imprese militari, esplorazioni dal Caucaso all’Himalaya per realizzare una mappa delle vie che avrebbero potuto condurre alle ricchezze dell’India. Protagoniste principali Inghilterra e Russia, con ruoli importanti per Francia, Turchia, Germania, Persia. Il Gioco evoca i sogni di Alessandro, Marco Polo, Napoleone. I territori della Persia e le valli dell’Afghanistan, come le lande dell’Asia centrale erano lo scenario di queste «guerre» in cui il controllo del territorio era solo uno degli obiettivi: altrettanto importanti erano l’intreccio delle alleanze, la sicurezza delle vie commerciali, i monopoli su certi prodotti che dalle terre lontane dovevano affluire al «cuore dell’impero»: a Parigi, a Londra, a Berlino. Il conte di Cavour costruì sulla guerra di Crimea le basi per l’annessione delle province italiane…
Oggi, si direbbe, il quadro complessivo non è molto diverso: oppio e terre rare, confini politici e religiosi, zone di influenza convergono sull’Afghanistan e sui Paesi vicini. Il cuore dell’impero (occidentale) si è spostato da tempo a Washington ma le analogie e le suggestioni rimangono.
Vittorie
L’Inghilterra rimane la maestra dell’arte in cui armi e comunicazione sono una a servizio delle altre. Le guerre dell’oppio (1839-1860) che portarono alla conquista di Hong Kong e all’apertura delle frontiere della Cina vennero propagandate come occasioni per esportare, col libero commercio, la «civilizzazione» europea, se non ancora la democrazia liberale. Sono idee che abbiamo sentito risuonare lungamente ancora di recente. Ma è qui che ci si avvicina al centro del disastro (umanitario, ideologico) che il ritiro dall’Afghanistan rivela.
Quali sono le «vittorie» militari dell’Occidente? Non la Corea (1950); non la guerra lampo per il canale di Suez (1956). Non il Vietnam, dove prima la Francia e poi gli Stati Uniti persero tutto quel si poteva perdere. Forse la guerra in Jugoslavia? Oppure quella in Somalia? O la stagione incomprensibile delle guerre che stanno svuotando la Siria?
John Le Carré è stato forse il più grande autore di libri di spionaggio; sua è l’epopea principale della Guerra Fredda, con «La spia che venne dal freddo» e «La talpa». Di mestiere faceva l’agente segreto per il suo Paese, l’Inghilterra. Fino a quando scrisse le storie di George Smiley, in cui questo eroe malandato comunque sconfiggeva i russi, ogni suo libro era un evento. Dopo il 1989 cominciò a fare luce su costi e ambiguità della propagandata «superiorità morale» dell’Occidente («Yssa il buono», «Il giardiniere tenace», «Il canto della missione»). Ed ecco, come per magia i suoi libri divennero una faccenda di nicchia.
Forse perché faceva dire a George Smiley cose come queste: «A volte penso che la cosa più volgare della Guerra Fredda sia stato il modo in cui imparammo a trangugiare la nostra propaganda (…) Nascondevamo le cose che ci mettevano dalla parte della ragione. Il nostro rispetto per l’individuo, il nostro amore per la diversità delle opinioni e per la discussione, la nostra convinzione che si può governare in maniera equa solo con il consenso dei governati, la nostra capacità di tener conto dell’altrui parere – soprattutto nei Paesi che sfruttavamo, sin quasi alla morte, per i nostri fini. Nella nostra presunta rettitudine ideologica, sacrificammo la nostra compassione al gran dio dell’indifferenza. Proteggemmo i forti contro i deboli e perfezionammo l’arte della menzogna pubblica. Ci facemmo nemici riformatori rispettabili e amici i sovrani più disgustosi. Ed era raro che ci soffermassimo a domandarci per quanto tempo ancora avremmo potuto difendere la nostra società con questi mezzi, restando una società degna di essere difesa («Il visitatore segreto», 1990).