L’armistizio – firmato il 3 e proclamato l’8 settembre 1943 – in pochi giorni precipita l’Italia nel caos; gli Alleati sbarcano a Salerno; i tedeschi dilagano nel Centro-Nord. La situazione si aggrava rapidamente in tutto il territorio, in particolare al Nord: dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio le truppe tedesche si erano mescolate ai reparti dell’Esercito, in previsione dello sganciamento dell’Italia dall’alleanza con il Reich.
Lo storico Gianni Oliva definisce quello di 80 anni fa «il giorno dello sgomento e delle scelte: una patria che muore, un’altra che prova a rinascere». Il 9 settembre «La Stampa» titola «La guerra è finita»; «Corriere della Sera» «Armistizio»; «Il Messaggero» «È stato concluso l’armistizio fra l’Italia e gli Angloamericani». I giornali scrivono dell’«orgoglio guerriero del generale Pietro Badoglio della Grande Guerra» e di «voce maschia e ferma eppure attraversata da un velo di tristezza» Più realisticamente, Cesare Pavese – citato da Oliva – ricorda le emozioni in «La casa in collina: «Alla radio la voce monotona, rauca, incredibile, ripeteva macchinalmente ogni cinque minuti la notizia. Cessava e riprendeva ogni volta con uno schianto di minaccia. Non mutava, non cadeva, non aggiungeva mai nulla. C’era dentro l’ostinazione di un vecchio, di un bambino che sa la lezione».
Il 3 settembre 1943 a Cassibile (Siracusa) sotto una tenda militare, il generale Giuseppe Castellano firma la resa «senza condizioni» imposta dagli Angloamericani, assieme al generale statunitense Walter BadelI Smith, presente Dwight David «Ike» Eisenhower, comandante in capo degli Alleati, che non vuole sottoscrivere di persona. Entrerà in vigore l’8 settembre, in concomitanza con lo sbarco alleato Salerno e il lancio di truppe aviotrasportate nella zona d Roma. Ma la situazione precipita per l’indecisione del re Vittorio Emanuele III, del governo italiano e dei comandi delle forze annate. La sera del 7 settembre Badoglio chiede al generale statunitense Maxwell Taylor di rinviare l’annuncio. Ma alle 17.45 dell’8 settembre il comandante supremo Eisenhower annuncia la resa italiana da radio Algeri. E Badoglio non può che precipitarsi alla sede dell’EIAR in via Asiago a Roma per rivolgersi alla Nazione. Eisenhower assicura l’intervento di una divisione aviotrasportata a difesa della capitale e lo sbarco di mezzi corazzati alla foce del Tevere.
La sera dell’8 settembre l’Ente radiofonico italiano sta trasmettendo musica leggera. Alle 19,42 il brano «La strada del bosco» di Alberto Rabagliati è interrotto dal popolare annunciatore Titta Arista che introduce il capo del governo Pietro Badoglio, che legge il proclama: «Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza». Il proclama, registrato su disco, è ritrasmesso a intervalli regolari per tutta la sera. Poi le trasmissioni si interrompono. L’assenza della data di cessazione delle ostilità genera un tragico malinteso e il governo italiano è del tutto impreparato. In un telegramma a Jozif Stalin, Wiston Churchill preconizza lo scoppio di conflitti immediati tra le truppe italiane e tedesche.
Nella stanchezza per un conflitto senza sbocchi, l’annuncio suscita smarrimento, angoscia, confusione. Che cosa significa «qualsiasi altra provenienza»? Non è per niente chiaro. La circolare «Memoria 44 OP», inviata ai comandi, crea ancora più incertezze: stabilisce che i reparti reagiranno solo in caso di «un’iniziativa d’attacco di proporzioni tali da sottintendere un piano di aggressione generale e preordinato». Commenta Oliva: «Se per rispondere a un’azione armata bisogna prima verificare su quanti chilometri questa si estende, si finisce per essere catturati prima ancora di aver sparato un colpo. Come infatti accadde». Gli archivi tedeschi fissano in 1.006.730 soldati italiani disarmati dai teutonici dall’8 al 30 settembre. In Savoia e nel Delfinato alle unità italiane si mescolano i soldati della 157ª divisione al comando del generale Karl Pflaum; occupano le principali città: Grenoble, Chambéry e Annecy; controllano strade e ferrovie e l’«Ospizio» del Moncenisio; a Modane operai e genieri tedeschi si impadroniscono della stazione e controllano gli accessi alla Galleria del Fréjus. Dal 10 settembre i nazifascisti occupano Torino, Milano, Genova.
L’8 settembre è il momento delle scelte: in mancanza di certezze e riferimenti, il cittadino si ritrova solo, in un clima di tensione che obbliga a schierarsi e a rischiare. Secondo Oliva «le scelte antifasciste della prima ora sono poche e non sempre consapevoli: a volte si tratta semplicemente di scappare in montagna per non essere catturati e internati in Germania. Il tratto che domina l’8 settembre e i giorni successivi è lo sgomento per uno Stato che si è liquefatto; per un re, un governo e un gruppo dirigente impegnati in una vergognosa fuga. I giovani scelgono la Repubblica sociale di Salò perché rappresenta la continuità con i valori nei quali sono stati cresciuti dalla scuola fascista; altri scelgono la rottura con il fascismo, l’alleanza con Hitler e la guerra e danno vita alle prime bande partigiane. Giorgio Bocca scrive di 18 mila militatiti partigiani e di oltre 100 mila militi di Salò a fine 1943. Scelte fatte in buona fede da giovani di 20 anni disposti a mettere in gioco la propria vita. Conclude Oliva: «Nel biennio 1943-45 si contrappongono due progetti: se avesse vinto la continuità avremmo avuto l’Europa divisa secondo la gerarchia tra i popoli: gli ariani destinati al comando; i mediterranei e gli slavi al lavoro; gli ebrei e i rom all’estinzione. Ha vinto invece la rottura: basta con la guerra, il razzismo e l’antisemitismo».