«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Come si è arrivati alla formulazione dell’articolo 27, comma terzo, della Costituzione? E la funzione della pena per la rieducazione del recluso è stata applicata o è rimasta solo una teoria? Ripercorrendo la storia delle leggi e dei regolamenti riguardanti i penitenziari dall’Ottocento a oggi, sembrerebbe piuttosto che quasi mai l’articolo 27 sia stato realizzato completamente. Al contrario, in questo momento storico si sta piuttosto verificando un ritorno alla pena cosiddetta «vendicativa» con una sempre maggiore richiesta, semmai, di aumento della detenzione.
Vi è tuttavia almeno un’eccezione: quella del Polo universitario per studenti detenuti, del quale celebriamo nel 2018 i vent’anni di messa in opera. In questa realtà, dove ho insegnato per vent’anni e dove sono stata per dodici delegata del Rettore, ho visto concretizzarsi, almeno per un piccolo numero di detenuti, gli obiettivi dei padri costituenti e mi sono posta molte domande, tra cui quella sul perché questa esperienza, unica in Italia e forse anche in Europa, sia nata e sia stata realizzata con successo proprio nella città di Torino. La modernità di pensiero e la lungimiranza di Carlo Alberto, affiancato da un gruppo di giuristi, pubblicisti, funzionari statali e sostenuto dall’impegno caritativo dei santi sociali piemontesi, può avere inconsapevolmente influenzato il gruppo di docenti universitari che hanno dato vita al Polo, con la volontà precisa di applicare il dettato dell’art. 27 e di garantire anche il diritto allo studio?
Già a partire dal Settecento la riflessione sociale ha affrontato il problema della funzione della pena, della sua corresponsione, della sua equità, del carcere inteso come strumento di punizione. Ma solo in tempi più recenti, riprendendo argomenti già teorizzati da Cesare Beccaria (1738-1794), si è cominciato a considerare con maggiore sensibilità il caso di quel castigo talmente radicale da privare della vita il condannato; ma anche, per contrapposto, delle possibilità ed eventualità di ricupero alla società di chi s’era distaccato dal reato commesso e si era reinserito nella società.
Sono tuttora dominanti, validi (adeguati all’evoluzione della società) quei principi enunciati da Beccaria fin dal 1764, fra cui primeggia quello relativo «al fine delle pene», fonte delle successive elaborazioni e delle norme penali positive. Scriveva Beccaria: «È evidente che il fine delle pene non è di tormentare e affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. […] Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi concittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve essere prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini e la meno tormentosa sul corpo del reo» (C. Beccaria, «Dei delitti e delle pene», a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino 1965).
La pena poi deve essere «dolce» e «giusta» e perché non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino dev’essere «pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi». L’argomentazione con cui Beccaria auspica l’abolizione della pena di morte poggia su due principi: per quello utilitarista la pena di morte andrebbe abolita perché inefficace come deterrente e quindi inutile alla società, per quello giuridico perché illegittima. In Italia la pena di morte fu abolita nel 1889 durante il ministero Zanardelli. Nel 1926, con l’opposizione di 12 deputati e 49 senatori la pena di morte venne reintrodotta da Mussolini per i civili. Il Codice Rocco, entrato in vigore il 1° luglio 1931, aumentò il numero di reati punibili con la morte. Dopo la caduta del fascismo il D.l. 10 agosto 1944 abolì la pena di morte per i reati previsti dal Codice Rocco, ma fu mantenuta in vigore per i reati fascisti e di collaborazione coi nazisti. La Costituzione repubblicana nel 1948 ha abrogato definitivamente la pena di morte.
Le questioni connesse alla prigione, alla sua organizzazione e ai suoi fini costituirono sempre più argomento di dibattiti. Fino al XVIII secolo la prigione non era mai stata considerata luogo di pena, ma come semplice luogo di custodia provvisoria per gli imputati in attesa di giudizio, o dell’estremo supplizio, o delle punizioni corporali; il concetto di pena, invece, si riferiva più che altro a pene pecuniarie, corporali, l’esilio o la condanna a morte. Solo più tardi incominciò a farsi largo il concetto di «prevenzione» dei crimini e non solo più di «repressione», iniziò ad affiorare a poco a poco anche l’idea che il carcere non dovesse essere un semplice luogo di reclusione, bensì un luogo di rieducazione e di correzione.
La prigione moderna è diventata forma dominante di pena soltanto nell’Ottocento e da allora molti studiosi ed operatori sociali si sono interrogati su quale sia l’utilità sociale di tenere rinchiusi degli individui a causa dei loro reati e sull’utilità del carcere. Il dibattito pubblico sembra avere pochissimi dubbi, ed è dato per scontato che il carcere sia il principale, se non l’unico, strumento di lotta alla criminalità. Ma, scrive Sarzotti (C. Sarzotti, «Per neutralizzare o per rieducare?», nel Dossier «Dietro le sbarre», a cura di E. Larghero, «Missioni Consolata», 4, aprile 2008, pp.-29-32), considerati gli alti tassi di recidiva fatti registrare dalle persone condannate alla detenzione, che cosa significa auspicare un maggior uso della detenzione se non legittimare la funzione meramente neutralizzativa della pena, contraddicendo il principio costituzionale dello scopo rieducativo della pena?
La pena non è solo necessariamente privazione della libertà nel chiuso dell’istituzione, ma può tradursi, anche per reati di non lieve entità, in altri strumenti di controllo sociale, come le misure alternative previste con la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975. Il carcere secondo il nostro ordinamento giuridico dovrebbe quindi costituire l’extrema ratio delle modalità punitive, riservato solamente ai reati considerati più gravi. Un carcere socialmente utile dovrebbe invece forgiare degli individui meno inclini a violare le leggi.
Sono queste alcune delle considerazioni, oltre ad assicurare anche il diritto allo studio, che hanno spinto i docenti delle Facoltà di Scienze politiche e di Giurisprudenza di Torino a istituire il Polo universitario per studenti detenuti. Il numero dei detenuti che hanno studiato al Polo in questi vent’anni, e quello di coloro che si sono laureati con ottimi risultati, la recidiva zero di coloro che qui hanno studiato e hanno scontato la pena, la possibilità di reinserimento sociale che hanno ottenuto attraverso il lavoro, confermano che è possibile un «altro carcere».
Il carcere può essere una istituzione dove non solo si scontano le pene, ma dove avvengono incontri formativi e dove si possono sperimentare forme di comunicazione valide ed efficaci anche per il mondo esterno. E non ha bisogno di essere sottolineato quanto il valore della cultura (declinata in diverse modalità, quali istruzione, formazione, abilità di fare) sia occasione di crescita, di evoluzione personale, come sia potente fattore di cambiamento della storia e della vita di ciascuno.
Quando si investe sulle persone si tocca con mano che è possibile cambiare vita e rimettersi in gioco. Infatti si verifica il crollo della recidiva laddove si offrono opportunità di lavoro e di studio all’interno del carcere e di reinserimento all’esterno. Come ha affermato don Marco Pozza, cappellano del carcere «Due Palazzi» di Padova: «Ciò che fa venire voglia di maturare è sapere che c’è qualcuno che scommette su di me proprio quando tutto tenderebbe a dire che sono un fallimento completo della mia vita».