Come fu che conquistai l’attenzione di Piero Gribaudi. Avvenne per caso (si dice sempre così) un pomeriggio d’inverno, nella libreria Dehoniana di via San Quintino. Appena presentati lo abbordai citandogli quasi a memoria un articolo che aveva scritto qualche anno prima per «il nostro tempo» dove, sollecitato a intervenire sul «futuro di Torino», lui fece quel che gli veniva sempre così bene, esagerò. Nell’articolo aveva scritto, infatti, «è inutile farsi illusioni, noi siamo Innsbruck». Un posto di nessuna importanza, una capitale secondaria di un regno che non c’è più. Un cambio di cavalli sulla strada per Roma. Nel «futuro di Torino» l’editore non vedeva quasi niente, finita la saga dell’auto con annessi e connessi. Non era in dubbio che avesse ragione: ma la sua condanna, sovente, era proprio quella di aver capito tutto.
Insomma, quasi tutto. Infatti mi prese per quel che non ero: un intellettuale disincantato che per campare faceva il giornalista in un piccolo settimanale. Quando invece ero solo un travet che veniva dalla Barriera di Milano, con una memoria (allora) discreta, che lavorava per troppe ore al giorno e non aveva mai abbastanza tempo per leggere. Ci mise poco, per altro, a inquadrarmi nel senso giusto. Alla seconda telefonata aveva già capito, e non stette più a sprecare con me i suoi argomenti più raffinati. Però, bontà sua, comunque ero stato ammesso. Così ci ritrovammo per parlare della Sindone, della Chiesa e del Concilio, della letteratura e di certi umoristi che ormai credo piacciano solo a lui e a me, come Anton Germano Rossi. Lui diceva di odiare i romanzi: poteva permetterselo, perché tanto la sua esperienza sterminata di scrittori e letterati gli consentiva di arrivare al cuore delle questioni (e delle persone) senza nessuno sforzo apparente. E il «fiuto» che lo guidò sempre gli insegnava a distinguere, a non sbagliare mai o quasi mai.
Perché Gribaudi era spietato. Come non può non esserlo il leone o il lupo, o qualunque essere vivente che debba procurarsi di che vivere, e sa bene che nel ciclo della natura non c’è spazio se non per la necessità. Il cibo indispensabile, per l’editore Gribaudi, era la scintilla che gli faceva intuire un cammino di seduzione, dei lettori, del mercato. Cominciò con Teilhard de Chardin. Lui era entrato all’editrice Borla come impiegato di seconda categoria divenendo in breve direttore generale; e quando si profilò l’occasione di pubblicare per la prima volta in Italia le opere del gesuita francese intuì tutto. Ma il sig. Borla aveva remore e clientele, antipatie e informazioni parziali, e non volle. Così, ricorda Gribaudi in un suo scritto, nasce la Gribaudi editore. E Borla? «Perde le opere di Teilhard de Chardin, perde me, tutti i suoi autori, tutti i suoi fornitori e tutti i suoi distributori (…)».
Con la sua Casa (sua e dell’onnipresente signora Maria Luisa, molto più che la donna della sua vita) Gribaudi può finalmente dedicarsi al suo mestiere di seduttore, vera essenza del lavoro di un editore: convincere che quel che piace a me, quel che ho scoperto del mondo, è bellissimo e ti farà felice, e io magari riesco anche a camparci sopra. Solo che Gribaudi era cattolico (era un credente, in realtà: il che è infinitamente di più e meglio, ma non c’entra con questo articolo). Un dettaglio che ha prodotto Teilhard in italiano, e tutto il resto, comprese le collane sui giovani, che hanno fatto crescere un paio di generazioni. Aveva già cominciato da Borla coi titoli di Quoist («Il diario di Daniele», «Il diario di Anna Maria»), e la serie continua anche nella Gribaudi di oggi. E perché non ricordare «La Bibbia secondo Linus» e «Il Vangelo secondo Charlie Brown»?
Un credente non allineato era, cresciuto alla scuola di don Barra e per natura diffidente dei movimenti entusiastici di massa, come anche delle associazioni di categoria e di tutto quanto il mondo cattolico, nei tempi della presunta «cristianità», sfornava a ritmo quotidiano. Così quando venne ricevuto in udienza da Paolo VI (con l’editore Borla) la sua preoccupazione iniziale fu per i precedenti del Papa. Che era stato assistente della Fuci. «Io non solo non ero mai stato fucino, ma nutrivo nei confronti dei miei compagni ed amici della Fuci un vivo fastidio: erano, insieme, troppo intelligenti, troppo impegnati nel politico e nel sociale e, soprattutto, con troppe puzze sotto il naso, tra cui quella nei confronti delle ragazze (ivi comprese le fucine). E poi erano troppo buoni, pii, perfetti e devoti e mi facevano sentire come un verme».
Gribaudi era, piuttosto, molto attento a quel pilastro centrale della Chiesa che è la formazione delle persone (dei giovani in primis); molto attento, anche, al mistero dello Spirito. Sentite cosa scrive, in morte di un prete che, con lui, fu tra gli animatori dell’Associazione don Barra: «Oh, sacerdoti di Dio, dove siete? Dov’è il vostro silenzio che ha parole più potenti di ogni dire, dove quel vostro guardare ad ogni cosa con quello sguardo che la rende sacra e l’accende di vita, dove il vostro consiglio sommesso più potente di un comando, dove il vostro gesto di benedizione talmente convinto da suscitare vita dalle pietre?».
In morte di don Franco Peradotto Gribaudi scrive: «Io, di preti come Monsignore (titolo che don Franco cordialmente detestava) ne ho conosciuti altri, ed anche Suore, ed anche laici. A tutti devo l’immensa gratitudine di chi, pur opponendo resistenza, è stato condotto dove non voleva: a inginocchiarsi sulle orme delle loro ginocchia, a tentare di seguire le piste dei loro sentieri, scoprendoli sempre, alla fin fine, ovvi e banali. Ma irrinunciabili».
Anche in questo campo delicato affiora comunque il Gribaudi dell’ironia e del sorriso. Come quando assunse in editrice un prete spretato: «Divenuto ex (il prete) bussò alle porte del mio cuore dietro suggerimento del solito don Barra. Non ero molto dell’idea. Quando però mi mostrò il motivo della sua rinuncia al sacerdozio, lo capii: il motivo proveniva dal Messico, era bruna e mozzava il fiato».
Nei coccodrilli che in questi giorni ricordano la sua morte viene fatto passare per «editore della spiritualità». Speriamo che dov’è ora Piero non debba più arrabbiarsi troppo. Il Gribaudi più recente è quello che, al compimento degli 80 anni, organizza il giro del mondo per nave con la sua Maria Luisa, lasciandone un diario preciso e, a tratti, esilarante. Continua a scrivere di tutto, nella sua specialità. Magari un raccontino da destinare solo agli amici, illuminato di qualche idea strampalata, come, che so, le qualità velenose o esilaranti dei fiori di magnolia. Qualche mese dopo scopri dai giornali che un gruppo multimediale di sociologi, architetti, sciamani e stregoni è arrivato alle stesse conclusioni dopo anni di studi accurati, ricerche sul campo, confronti accademici e bla bla.
Scrive, soprattutto, il «Piccolo dizionario d’amore» (Effatà, 2011). Che è diverso da tutto il resto. Un capolavoro di delicatezza, dove Piero parla con voce sommessa delle cose importanti: «Chi ama gli anziani dovrebbe avere le doti del cane da tartufi, mobilissimo nella sua ricerca, ma senza l’ansia del risultato. Un amore, quello per gli anziani, molto mobile, pronto però a ritrarsi come a tracimare (…) L’anziano va amato per quello che è, non per come lo vediamo o lo vorremmo».
L’ultimissima parola però va lasciata a un branetto che introduce alcune storie dei suoi «Vangeli irriverenti». Ecco: «Ad una certa età si giunge, o si crede di giungere, talmente vicini al cuore della vita (la morte) e a quello di Dio (la Vita), che ogni gesto pare lecito, soprattutto quello inusuale, inopportuno o sconveniente agli occhi dei più, o provocatorio, o semplicemente ironico. L’unico guaio è che pochissimi sanno che, come ha scritto Victor Hugo, ‘la libertà incomincia dall’ironia’ e che, come dico io, l’ironia è il fuoco che meglio alimenta il rogo».