Alfredo e Pier Giorgio Frassati contrari alla Grande guerra

Pier Giorgio Frassati, studente al liceo “Massimo D’Azeglio” di Torino, si oppose nettamente all’intervento dell’Italia nella Prima Guerra mondiale ribattendo con fermezza l’accusa dei compagni di essere “un traditore”. Carla Casalegno, in «Pier Giorgio Frassati» (Piemme, 1993) ricorda le scelte coraggiose del padre Alfredo, direttore de «La Stampa», unico giornale neutrale

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Beato Pier Giorgio Frassati

«Pier Giorgio Frassati, quattordicenne, fiero nemico di ogni violenza e sopruso, non poteva certo applaudire una guerra che ogni giorno causava decine e decine di morti e feriti. Nettamente contrario all’intervento, più di una volta, al liceo “Massimo D’Azeglio” di Torino, ribatté con fermezza e coraggio all’accusa dei compagni interventisti, come Mario Attilio Levi, di essere “un traditore” come suo padre, e “un soldino”, cioè venduto per un soldo agli Imperi Centrali». Carla Casalegno, in «Pier Giorgio Frassati» (Piemme, 1993) ricorda l’atteggiamento dello studente e le scelte coraggiose del padre Alfredo, senatore, proprietario e direttore de «La Stampa», unico giornale neutrale.

Il 24 maggio 1915 Vittorio Emanuele III proclama la guerra. Per il giovane è un incubo. Conforta i bambini orfani, profughi dal Veneto, alloggiati nella palestra del suo liceo, e distribuisce loro i soldi che riesce a racimolare. Prega perché l’«inutile strage» finisca in fretta. Il senatore, sul giornale, denuncia errori, incongruenze e deficienze ma la censura mutila i suoi articoli. Non è un pacifista nato, ma assume queste posizioni dopo una lucida e pragmatica analisi. Nella primavera del 1915, il neutralismo costa al quotidiano un calo nelle vendite di 50 mila copie.

Dice ai suoi redattori: «Da ogni parte chiamano me e il mio giornale “traditori”. La gente ha pienamente ragione. Le hanno detto che la guerra sarà di corta durata e facile; in due, o al massimo tre mesi, avremo Trento, Trieste, arriveremo fino a Vienna. E con la dissoluzione dell’Austria faremo precipitare la disfatta della Germania. Così non è: la posizione militare e diplomatica dell’Italia è irta di difficoltà. Si dice: la guerra sarà rapida e decisiva. Ma il tempo delle guerre rapide è tramontato sulla Marna. La Germania voleva mettere fuori combattimento la Francia per rovesciarsi contro la Russia. La vittoria francese ha sventato il piano e alla guerra manovrata è subentrata la guerra di trincea, lunga, logorante. L’esperienza lo ha mostrato persino ai ciechi. Applichiamo questi principi al Carso: lo Stato maggiore non lo conosce, ma io l’ho attraversato“en touriste”. Centomila austriaci basteranno a fermare l’Esercito italiano e faremo cattiva figura dinanzi all’Europa. L’Austria resterà sulla difensiva. I nostri soldati fanno miracoli ma il loro eroismo si consumerà contro una tattica logorante. Se compissero il prodigio di superare le difese e riuscissero a costituire una seria minaccia per Trieste, si troverebbero di fronte anche l’esercito tedesco. Trieste rappresenta per l’Austria e la Germania un interesse vitale: pur di salvare l’unico sbocco sull’Adriatico, faranno sforzi estremi. Non possiamo cacciarci in una guerra solo per dar modo ai nostri soldati di provare il loro valore».

Frassati è lungimirante: anche i tedeschi, dall’inconfondibile elmetto chiodato, sconfiggono l’Italia a Caporetto. Molto legato a Giovanni Giolitti, Frassati combatte la battaglia per la neutralità, che coinvolge Mario Missiroli del «Resto del Carlino» di Bologna ed Edoardo Scarfoglio de «Il Mattino» di Napoli. Alfredo il 21 maggio 1915 si piega: dopo essere stato accusata di disfattismo dal «Corriere della Sera», «La Stampa» capitola con l’editoriale «”Tutti uniti” alla parola d’ordine della concordia e della disciplina nazionale per affrontare, senza apparenti divisioni davanti all’opinione pubblica, l’imminente conflitto».

Per soddisfare le richieste belliche, l’industria torinese sottopone i lavoratori a sforzi sovrumani. Donne, vecchi e bambini sostituiscono gli uomini al fronte: orari massacranti di 14-16 ore, riposi saltati, regolamenti applicati con estremo rigore, pesanti multe per ogni minimo difetto. Per contadini e braccianti, massaie e casalinghe è difficile trasformarsi in operai. Scrive l’«Avanti»: «entrando alla Fiat gli operai devono dimenticare di essere uomini e rassegnarsi a essere utensili».

Pier Giorgio porta fiori sulle tombe dei caduti, visita i soldati feriti. Racconta la sorella Luciana: «Dopo la strage di duemila alpini, corse in cucina dalla sua grande amica cuoca Carolina Masoero, che disse in lagrime: “Ah, se avessi la potenza e la sapienza di scrivere qualche libro, di gridargliela a tutti la crudeltà e l’infamia della guerra! Se potessi far capire che la guerra è il più spaventoso errore del mondo!”. Lui commentò: “Ha ragione, ma non servirebbe a niente!”».

Secondo la Casalegno «maturò la decisione di offrire a Dio la sua vita in cambio della fine del conflitto». E matura una chiara coscienza democratica che nel 1919-20 lo porta a schierarsi nel Partito Popolare, a opporsi al fascismo, a difendere la libertà e la democrazia. Il giornalista e scrittore canavesano Carlo Trabucco osserva: «Nessuno si è amai accorto della sua “borghesia”; egli stimola tutti a essere vicini ai poveri. E quando la questione sociale si fece calda, divenne “operaista” a spada tratta».

Nell’ultimo anno di guerra la micidiale «spagnola» provoca migliaia di vittime. Pier Giorgio, senza alcun timore di contagio, visita i malati nelle squallide stamberghe, fa ricoverare negli ospedali i più gravi, procura le medicine. La poderosa offensiva di Vittorio Veneto, la conquista di Trento e Trieste, la vittoria il 4 novembre 1918 scatenano l’entusiasmo: «Viva l’Italia! Viva la pace!». Pier Giorgio a Pollone manifesta la sua gioia salendo sul campanile e le campane suonano a distesa.

Padre e figlio combattono il fascismo, flagello d’Italia. Il dittatore Benito Mussolini nel 1923 visita Torino. Insieme all’amico Giovanni Maria Bertini, il giovane va da mons. Giovanni Battista Pinardi, parroco di San Secondo e vescovo ausiliare e antifascista: vede sfavorevolmente la presenza delle associazioni cattoliche al ricevimento di Mussolini.

Thomas Woodrow Wilson è il primo presidente americano a visitare l’Italia, il  Vaticano e Torino. Da buon protestante è diffidente verso i cattolici. Il 4 gennaio 1919 va da Benedetto XV con malcelata insofferenza che si trasforma in dura opposizione alla Santa Sede. Con­sidera le prese di posizione del Papa un’in­gerenza; non vuole condividere con il Vaticano il ruolo di protagonista-mediatore; vuole un assoluto dominio internazionale. Benedetto XV, con il «presidente della più grande democrazia del mondo», perora la causa dell’indipendenza dell’Armenia: «La pace non durerà se si impongono condizioni che lasceranno profonde tracce di rancore e progetti di vendetta». Nell’appello sull’«inutile strage» del 1° agosto 1917 aveva  anticipato alcuni principi che diventeranno pilastri del diritto internazionale: autodeterminazione dei popoli, libertà dei mari, disarmo, arbitrato internazionale,  nazionalità come libera volontà dei popoli e non come semplice ritaglio territoriale. Rievoca Luciana: «Wilson appariva agli occhi di tutti l’aral­do della pace. Pier Giorgio, amico della pace, non mancò tra coloro che lo acclamarono. Uscì la mattina presto, con il berretto goliardi­co in testa e la sua voce sonora come una cannonata. Pioveva e tornò un attimo a mezzogiorno, zup­po, inzaccherato. Il tempo di cambiarsi, di mangiare un boccone, e poi via di nuovo per strada a gridare: “Viva Wilson” fino a sera, quando rincasò sen­za voce». Wilson affacciandosi dalla finestra dell’Accademia Filarmonica di piazza San Carlo vuole accanto l’arcivescovo Agostino Richelmy e il sindaco Secondo Frola.

Pier Giorgio, ottenuta la licenza liceale al «Sociale», si iscrive a Ingegneria meccanica mineraria perché i minatori «sono tra i più poveri».

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