Puntualmente, nella cronaca cittadina tornano alla ribalta le gang giovanili: gruppi di adolescenti che aggrediscono, seminano il panico nei giardinetti di periferia, rubano cellulari, spaccano arredi e danneggiano i mezzi pubblici. Il racconto dei ragazzi violenti riappare soprattutto nei momenti di maggior tensione sociale, quando crescono, probabilmente per gli stessi motivi, anche disagio psichico e suicidio. Nulla in comune con le gang che negli Stati Uniti o nel centro-sud America seminano terrore e morte, ma il fenomeno è sufficiente a preoccupare famiglie e cittadini.
Sono sinteticamente tre le forme del crollo umano, nello scontro tra la fatica del presente e la mancanza di speranza: la protesta muta, l’esito violento, la modificazione artificiale dello stato mentale nelle droghe e nel gioco compulsivo. Nella protesta muta (l’ansia, la depressione, il silenzio) ci si ritira dalla società. La percezione di un irreparabile sconforto si mescola con la rabbia, lo scoramento, il senso di vergogna. Nella violenza, la debolezza interiore si riveste di forza e prepotenza. Nel ritiro sociale si consuma la resa dell’Io, nell’agito aggressivo si tenta la sua estrema difesa, nell’abuso delle droghe si sceglie la fuga. Comune alle diverse situazioni è lo stato di insoddisfazione e di sradicamento, la solitudine crescente nelle città, l’incomunicabilità.
La pandemia ha aggravato la situazione, perché ha avuto un impatto psicologico forte sui ragazzi, costretti a distanza forzata e a lezioni online. Hanno così dedicato più tempo ai social e ai videogiochi, usandoli come strumenti di socializzazione.
Le gang delle nostre periferie si formano attorno a un leader, un ragazzo o una ragazza particolarmente fragili, che trasmettono sicurezza, trasformandosi in bulli. Violenza e bassa stima di sé sono il risultato di un difetto di radicamento. Vi contribuisce anche lo sport quando, privato della sua capacità di simbolo, diventa spettacolo individualistico, da consumare, alla stregua del rapporto solitario che, giovani e meno giovani, instaurano con i videogiochi, nella loro trama per lo più violenta. Web e televisioni trasformano, poi, stadi e tifoserie in una specie di eccitante teatro globale, surrogato dei rapporti mancati, diversivi per prevenire la noia e la solitudine, antidoto alla sofferenza delle delusioni e dei fallimenti affettivi.
Esprimersi, emozionarsi, contare. La crescita della violenza tra i ragazzi più che un’emergenza sociale da cui difendersi, è un allarme educativo da cogliere. L’aumento della violenza può essere interpretato come delusione profonda, conseguenza di un doppia comunicazione, contraddittoria e insostenibile della cultura occidentale. Da una parte viene detto ai ragazzi: «Tu vali! Realizzati, cogli le occasioni! Puoi fare tutto ciò che vuoi…». Dall’altra, l’ideologia scientista e un modo superficiale di intendere la robotica sembra trasmettere il messaggio contrario: «Una macchina fa meglio di te. E anche tu non sei che una fragile macchina, frutto del caso e governata dalla necessità. Puoi fare ciò che vuoi, poiché nulla ha significato. Tu vali niente».
Gli adolescenti invece sono alla ricerca di un senso che li faccia vivere in pienezza (a loro modo, se pur deviato, lo sono anche le gang). Si può uscire da quella contraddizione, dimostrando stima e fiducia nei giovani, ritenendoli capaci di innovazione e creatività.
Una città educativa ha il compito e i mezzi per creare un porto sicuro e un trampolino di lancio per le nuove generazioni, per offrire occasioni di incontro, nella vita reale e intergenerazionale. Gli adolescenti hanno bisogno di sentirsi sentiti e visti. Hanno bisogno di contatto, di mettere in gioco le emozioni, di fare esperienze vere. I giovani cercano luoghi e occasioni per contrastare la delusione e l’umiliazione del non sentirsi riconosciuti. Serve comprendere a quali condizioni l’aggregazione giovanile diventi incubatore di immaginari per la creazione di un futuro collettivo. Solo così possono sperimentarsi come parte di qualcosa di più grande, oltre i confini di un Sé isolato. L’innesco della motivazione e della creatività delle nuove generazioni sono le esperienze ad alto contenuto emozionale. Non basta quindi mobilitarsi contro la violenza, bisogna battersi a favore della cittadinanza attiva: esprimersi ed emozionarsi, per contare sulla scena sociale.
Non bastano i genitori. Parlando dei ragazzi, il primo pensiero va alla famiglia. L’attaccamento sicuro, materno e paterno, è la base della motivazione a mettersi alla prova nello studio e nel lavoro. Le delusioni e le frustrazioni affettive, invece, incidono pesantemente sulla motivazione scolastica e sulle capacità di pensiero. Nell’adolescente in difficoltà, l’ignoto non ingenera piacere e curiosità ma ansia e demotivazione. Non provare piacere nella scuola è un problema affettivo, ma se la scuola va male, crolla anche l’autostima. La violenza verbale dell’adolescente in casa assume il tono di una sfida: mettere alla prova i genitori per saggiarne l’affidabilità. Colludere con questa violenza impedisce di definire i confini generazionali e le rispettive responsabilità. Il figlio gravemente irrispettoso manca all’impegno del legame, che è alla base della famiglia, della scuola e della società.
Giunti all’adolescenza, però, la famiglia non basta più. Per far crescere un figlio ci vuole un villaggio, ha sempre riconosciuto la saggezza antica. Nel villaggio globale questo è ancora più vero. La letteratura psicologica, insieme al legame materno e paterno, parla sempre più della figura del caregiver, di chi cioè può accompagnare i ragazzi al debutto sociale. Da solo l’adolescente non può passare il guado: più cerca di liberarsi, più sprofonda. La soluzione viene dall’esterno: il legame vitale, il valore dell’altro, l’affidabilità della comunità. A questo servivano gli antichi riti di iniziazione.
C’è una paura che salva la vita (quella che ci aiuta a difenderci dal contagio) e una paura che impedisce di vivere: quella che chiude il ragazzo in casa. La si vince onorando le differenze, favorendo il legame, non allontanando il diverso, mostrando riguardo e sostegno per reciproche fragilità.
Il tempo dell’interiorità. Non basta, tuttavia, neppure il villaggio. Secondo una parte importante dell’attuale ricerca delle neuroscienze, la mente non coincide con il cervello ma emerge dalle relazioni tra le persone e con la natura, passando attraverso l’arte e il sacro. La nuova società robotizzata, dove l’intelligenza è affidata all’efficienza delle macchine, produce una diffusa nostalgia dell’umano e dello spirituale. D. Siegel (La mente adolescente, 2014) – ma non solo lui – insiste sull’aiuto che i ragazzi potrebbero ricavare coltivando il tempo dell’interiorità e della meditazione. Senza l’esercizio dell’attenzione e della riflessione, non può funzionare il coordinamento mentale di giornate troppo piene, di una vita troppo carica di stimoli e di stress.
Pratiche antiche (e dismesse) della formazione cristiana dei nostri oratori, come la meditazione e l’adorazione, ora potrebbero essere riscoperte e vissute come il contributo più originale ed efficace per accompagnare le nuove generazioni. Il tempo dell’interiorità consente di percepire le emozioni, i ricordi, le convinzioni, da dove nascono le speranze e i sogni. Il contributo innovativo dell’attuale adolescenza è proprio ciò di cui abbiamo bisogno, per dare forza ai cambiamenti economici ed ecologici necessari.
Le parrocchie accolgono per molti anni bambini e adolescenti con le loro famiglie. Se insegnassimo loro la pratica quotidiana della meditazione e della riflessione, potremmo avere la certezza di compiere un’opera giusta ed efficace. Come anche quando proponiamo ai ragazzi il servizio, perché oggi sappiamo bene che aiutando gli altri si diventa più felici e si migliora anche la salute.