Migliaia di roghi dolosi nei paesi latinoamericani stanno devastando la foresta amazzonica, il più grande polmone verde della Terra, la nostra riserva di ossigeno. L’avanzata delle fiamme sta mettendo in fuga le popolazioni indigene, mentre colossali nuvole di fumo nero si innalzano a oscurare il sole. Nauseabonda – quanto l’odore del fumo – appare la reazione del presidente del Brasile Jair Messias Bolsonaro: sta approfittando per scaricare la colpa sulle… Ong! Ma il mondo non dà credito al gradasso leader del populismo latinoamericano: prendersela con le organizzazioni umanitarie è diventata una moda stucchevole, che lascia a briglie sciolte i faccendieri; nel caso dell’Amazzonia il disastro si deve ai coltivatori e agli agricoltori, veri responsabili degli incendi appiccati per disboscare e per sfruttare i terreni.
È un disastro, a poche settimane dall’apertura del Sinodo indetto dal Papa proprio per discutere con i Vescovi sui problemi ambientali, sociali ed ecclesiali dell’Amazzonia (6-27 ottobre). La foresta del pianeta affronta la sua più terribile crisi ecologica. Rispetto all’anno scorso risulta che i roghi siano più che raddoppiati. Secondo l’Istituto nazionale di ricerche spaziali del Brasile (Inpe) solo nell’ultima settimana in una regione boschiva che copre nove stati brasiliani (tra cui Amazonas, Pará, Mato Grosso e Rondônia) sono divampati almeno 3 mila nuovi incendi. Il più vasto e virulento risulta al momento nella zona di confine tra Brasile, Bolivia e Paraguay: un fronte di fuoco lungo oltre 100 chilometri.
L’Esercito brasiliano è stato mobilitato per cercare di domare le fiamme (aerei da guerra, 44 mila militari) ma in questa drammatica crisi ambientale il presidente Bolsonaro appare realmente screditato, sia nel Paese che a livello internazionale, per le sue irresponsabili campagne di sostegno ai gruppi economici che sfruttano la foresta. L’Amazzonia ha una superficie totale pari a 5,5 milioni di chilometri quadrati: più del 60 per cento si trova in territorio brasiliano.
Il polmone verde si estende in Colombia, Perù, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Guyana, Suriname e Guyana francese. È uno degli ecosistemi più ricchi al mondo. Il vapore acqueo che esso rilascia nell’atmosfera influisce sui cicli mondiali delle piogge. La quantità di anidride carbonica che le piante assorbono è considerata fondamentale per la lotta al cambiamento climatico. Circa 500 le comunità indigene che popolano la regione delle foreste, 3 milioni le specie di animali e piante, molte delle quali presenti solo qui.
Nel mese di agosto i Vescovi dell’America Latina hanno sentito il dovere di alzare la voce e richiamare l’attenzione sui fenomeni di distruzione, un dramma dell’intera umanità in Amazzonia e in altre regioni del pianeta. Domenica scorsa, al termine dell’Angelus, il Papa ha lanciato un appello: «Siamo tutti preoccupati per i vasti incendi. Preghiamo perché, con l’impegno di tutti, siano domati al più presto. Quel polmone di foresta è vitale per il nostro pianeta».
In un comunicato a firma della presidenza del Celam, il Consiglio dei vescovi latinoamericani, i presuli osservano che il clima positivo della vigilia sinodale è purtroppo offuscato dal dolore per il disastro naturale. La Chiesa si schiera con le popolazioni indigene, fa appello ai governi di tutto il mondo per «fermare la devastazione». Il G7 che si è tenuto in Francia nei giorni scorsi sblocca aiuti per 20 milioni di dollari, ma Bolsonaro inasprisce la polemica con Macron.
Da mesi nell’Instrumentum laboris, il documento che prepara il Sinodo, la fragilissima situazione della foresta che garantisce ossigeno alla Terra si legge nero su bianco: i Vescovi denunciano il disboscamento selvaggio, lo sfruttamento smodato delle risorse naturali, la persecuzione degli indigeni, tutte piaghe provocate interventi dissennati dell’uomo, in cui predominano la «cultura dello scarto» e una mentalità che mette al centro l’attività produttiva. «Esortiamo i governi dei Paesi amazzonici, in particolare del Brasile e della Bolivia, le Nazioni Unite e la comunità internazionale, ad agire seriamente per salvare il polmone del mondo», scrivono i Vescovi: «Se l’Amazzonia soffre», concludono, «soffre tutto il mondo».
I dati sugli incendi forniti dall’Istituto nazionale di ricerche spaziali brasiliano fotografano una realtà allarmante. Dall’Italia Stefano Raimondi dell’ufficio Aree protette di Legambiente ha dichiarato all’agenzia di stampa vaticana che «la situazione è decisamente peggiorata nel corso dell’ultimo anno: le fonti in nostro possesso riportano un incremento degli incendi in tutto il Brasile di oltre l’83 per cento nella prima parte dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2018. Altre fonti sono anche più allarmistiche, ma sicuramente possiamo dire che gli incendi sono più che raddoppiati. È una situazione preoccupante visto che si tratta di roghi di origine dolosa, alimentati da un clima politico che nega la questione, nonostante ci possano essere conseguenze a livello mondiale».
Riguardo alle conseguenze degli incendi, Raimondi segnala «da un lato l’effetto immediato dell’emissione nell’atmosfera di grandi quantità di anidride carbonica che alimenta l’effetto serra; dall’altro, il fatto che per decenni le foreste bruciate non contribuiranno più all’assorbimento dei gas che concorrono ad alterare il clima. Stiamo perdendo foreste di dimensioni pari a interi Stati europei. Pagheranno il conto le prossime generazioni».
Sempre secondo Raimondi «in Amazzonia i disboscamenti con il fuoco sono sempre avvenuti da parte di allevatori e contadini per ottenere territorio da coltivare o da mettere a disposizione di allevamenti». L’accelerazione degli ultimi mesi si nutre però di un clima politico degenerato e compiacente: «La scarsa attenzione nei confronti delle tematiche ambientali ha portato molti agricoltori e allevatori, purtroppo anche piccoli, ad accelerare il disboscamento non sapendo quanto durerà questa situazione così favorevole alla sottrazione del territorio amazzonico per scopi meramente produttivi».