Confermando la sua ben nota vocazione di “laboratorio”, il Piemonte risulta essere la prima regione italiana ad aver approvato il Piano di contrasto della povertà, realizzando la rete tra enti locali, sindacati e soggetti del terzo settore prevista dalla legge che istituisce il Reddito di inclusione. L’obiettivo è gestire nel modo più rapido ed efficace le risorse messe in campo dallo Stato per l’erogazione del sussidio.
A dispetto infatti di chi propugna nuovi strumenti contro la povertà, esiste una misura già pienamente operativa ed è, per l’appunto, il Reddito di inclusione (Rei), approvato nell’agosto scorso dal governo Gentiloni con uno stanziamento di 2 miliardi per il 2018, di 2,3 miliardi per il 2019 e di 3 miliardi per il 2020. Si prevede di concedere un sussidio mensile che va da 180 euro per una persona sola, sino a 540 euro per famiglie numerose. I requisiti per usufruirne sono: un reddito Isee non superiore a 6 mila euro, un valore del patrimonio immobiliare, prima casa esclusa, non superiore a 20 mila euro e un patrimonio mobiliare (risparmi, ecc…) tra i 6 e i 10 mila euro, in base al numero dei familiari.
Per la prima volta l’Italia si dota di una misura universale e sistematica in favore di chi non ha i mezzi per vivere in maniera dignitosa. Non si tratta però, e questa è la novità decisiva, di un sostegno unicamente assistenziale, in quanto l’erogazione del sussidio, per una durata massima di 18 mesi (rinnovabile dopo un’interruzione di sei, qualora sussistano ancora i requisiti di partenza), avverrà in base a precise condizioni. Vi è l’obbligo di seguire un piano di reinserimento che riguarda aspetti educativi (contro l’abbandono scolastico dei minori), sociali (per fronteggiare situazioni di marginalità) e lavorativi (con l’avviamento di percorsi di riqualificazione professionale). Il sussidio sarà caricato sulla Carta Rei, che sostituirà la Carta acquisti. Metà dell’assegno potrà essere prelevato in forma di contante e l’altra metà speso in negozi convenzionati. Il Rei sostituisce tutte le misure similari preesistenti, a cominciare dal Sostegno di inclusione attiva (Sia), progetto pilota dapprima riguardante il solo Mezzogiorno, poi esteso anche alle aree metropolitane del Centro-Nord.
Purtroppo le risorse a disposizione per il Rei non consentono ancora di affrontare in modo adeguato tutte le situazioni di povertà presenti nel Paese. Secondo l’Istat infatti, l’area della povertà assomma a circa 4 milioni di persone, mentre il Rei riesce attualmente a coprirne poco meno della metà. L’azione viene dunque a concentrarsi sui casi di disagio più gravi: famiglie con minori, con un figlio disabile, donne in stato di gravidanza, disoccupati con almeno 55 anni di età.
Questo il quadro del reddito di inclusione, che rappresenta lo strumento attualmente in vigore. All’orizzonte emergono però altre ipotesi come quella formulata in campagna elettorale dal M5S, sul cosiddetto reddito di cittadinanza per chi si trova sotto la soglia di 780 euro mensili (60 per cento del reddito medio Ue). Un sostegno per colmare il divario tra il reddito realmente percepito e la soglia, considerata il minimo per una sopravvivenza dignitosa. In realtà la proposta pentastellata non è un reddito di cittadinanza universale ma una misura assai più selettiva, accompagnata da un percorso di reinserimento sociale e lavorativo, attraverso corsi di formazione a frequenza obbligatoria. Un impianto simile al Rei adottato dal centro-sinistra, da cui si discosta solo l’ampliamento della platea degli aventi diritto, circa 9 milioni di persone, e per le più ingenti cifre erogate ai beneficiari.
L’ostacolo sono però le risorse. L’attuale Rei costa circa 2-3 miliardi annui, il progetto del M5S ammonta a 16 miliardi: una cifra non compatibile con i nostri equilibri di bilancio. Per realizzarlo ci sono due possibilità: sforare i tetti di spesa scassando i conti pubblici o, più saggiamente, ridurre la portata del progetto. Non a caso, anche dagli ambienti pentastellati sta filtrando l’idea di allargare la platea del Rei, al di sotto però dei 9 milioni dello schema iniziale, accrescendo nel contempo le somme erogate, pur non raggiungendo i 780 euro previsti in prima battuta. Qualcosa che potrebbe costare attorno ai 6 miliardi l’anno: non poco, ma certo più digeribile per i nostri delicati equilibri finanziari.
Anche il centro-destra ha una sua proposta contro la povertà, denominata reddito di dignità. Vi è la previsione di un sostegno sul modello dell’imposta negativa sul reddito, a suo tempo immaginata dall’economista americano Milton Friedman. In pratica, chi è sotto una certa soglia non soltanto sarà esentato dal pagamento delle imposte ma riceverà dallo Stato una somma necessaria per conseguire il livello del reddito di dignità, stabilito in 1.000 euro mensili, da modulare in relazione al numero di figli a carico. Secondo una stima della Voce.info, questa ipotesi costerebbe circa 29 miliardi di euro, una cifra addirittura superiore alla proposta del M5S.
Al di là delle diverse soluzioni sul tappeto, nessuna delle forze politiche si rifà al famoso, e troppo spesso declamato, reddito di cittadinanza che è altra cosa rispetto alle misure sin qui enumerate. Queste infatti innalzano i redditi al di sotto di una certa soglia per portarli sino al livello prestabilito, ma si tratta, in ogni caso di interventi selettivi, sottoposti alla cosiddetta prova dei mezzi. Per beneficiarne occorre infatti disporre di precisi requisiti. L’obiettivo di queste misure è di sconfiggere, o quanto meno, di ridurre l’area della povertà e sono destinate ad una, più o meno ampia, platea di beneficiari, con importi più o meno elevati, a seconda delle risorse a disposizione.
Il reddito di cittadinanza invece parte dal presupposto che tutti, in quanto cittadini, ricchi o poveri che siano, debbano ricevere un sussidio incondizionato senza alcuna verifica delle proprie condizioni economiche o della possibilità di svolgere un lavoro. Evidente la diversa portata di questa misura che ha carattere universale, una chiara matrice assistenziale e costi insostenibili per qualsiasi sistema economico. Questo per fermarsi solo alle ricadute finanziarie, perché tale dispositivo è ancora meno convincente sotto un profilo etico, in quanto lancia il messaggio di un reddito ottenuto senza lavorare. Il lavoro da centrale attività da promuovere e tutelare, viene relegato a deteriore scarto di una società fondata sull’assistenza. Un’utopia che, non a caso, a parte nelle elaborazioni teoriche di qualche studioso, non ha mai trovato una seria applicazione.
Unico caso che si avvicina a questo modello è dato dall’Alaska, dove il governo ha investito le enormi entrate delle concessioni petrolifere in un fondo. Una quota dei profitti generati viene poi suddivisa tra tutti i cittadini residenti da almeno due anni, con importi che annualmente vanno dai mille ai duemila dollari pro capite. Un sussidio che non sostituisce il normale reddito da lavoro ma lo integra, e che va considerato quasi alla stregua di un premio per chi vive in una delle aree climaticamente più inospitali del pianeta, per evitarne un possibile spopolamento. Un caso quindi limite, che risente delle peculiarità di una situazione eccezionale.