La casa dei giornalisti apre le porte al venerabile Adolfo Barberis, al suo genio, alle sue «famule» e alle sue suore del Famulato cristiano. È successo sabato 24 febbraio 2018 al Circolo della stampa in corso Stati Uniti 27 a Torino nella mezza giornata di studio «Per le donne e con le donne. L’intuizione di Adolfo Barberis», a conclusione del 50° della morte dell’eccezionale prete torinese (1967-24 settembre-2017).
Nato il 1° giugno 1884 in Borgo Vanchiglia, per 17 anni (1906-1923), ancora chierico, fu il segretario del cardinale Agostino Richelmy, arcivescovo di Torino (1898-1923) «e in un certo senso – dice mons. Claudio Iovine, già relatore della Congregazione dei santi a Roma e oggi parroco di Condove – ebbe fra le mani il destino della diocesi». Inevitabili le gelosie e le ripicche clericali. I due arcivescovi successori di Richelmy, i cardinali Giuseppe Gamba (1923-1929) e Maurilio Fossati (1930-1965), lo accantonano. Tanto che mons. Guido Fiandino, vescovo già ausiliare di Torino e parroco della Crocetta, divenuto prete nel 1964, confida: «Era talmente inviso che non fu mai invitato dai superiori del Seminario a parlare a noi chierici. Vennero altri preti, ma non mons. Barberis».
Il decreto sull’eroicità delle virtù (3 aprile 1914), per cui è venerabile, dice: «L’incarico di segretario lo fece conoscere e apprezzare ma lo espose anche a critiche e incomprensioni. Dopo la morte di Richelmy seguirono anni di dolorosa purificazione, durante i quali si dedicò a edificare la Congregazione da lui fondata e si impegnò in un’intensa predicazione al clero, ai religiosi e al popolo in tutte le regioni italiane».
I santi danno fastidio – ricorda Iovine – «ma don Barberis aveva i piedi ben piantati per terra e gli occhi in cielo. La sua è stata una vita spirituale di alto profilo, da buon allievo di San Giuseppe Cafasso. Per tutta la vita ha trasmesso Gesù» e in punto di morte invita le sue suore: «Mandatemi presto in Paradiso» e prega: «Gesù, vieni a prendermi». Un uomo poliedrico – aggiunge il prof. Gian Maria Zaccone, direttore del Centro internazionale di Sindonologia, parlando di «Barberis figura e opere» – e dalle molteplici attività «ma mai dimenticò i suoi tre grandi amori: l’Eucaristia, la Madonna, la Sindone».
Cristiano a 24 carati, ardente servitore del Signore, illustre sacerdote che onora la Chiesa torinese, maestro e consigliere del clero, «servitore delle serve», fondatore del Famulato cristiano, predicatore itinerante. «Alcuni santi sono lavorati dalla divina mano con lo scalpello e altri sono con il pennello» scriveva mezzo millennio fa Santa Teresa di Gesù d’Avila (1515-1582), riformatrice del Carmelo. Il canonico è convinto che «la santità non si fa con il pennello, ma con lo scalpello». Egli rientra a pieno titolo alla costellazione di santi, beati e venerabili della Chiesa torinese, i «buoni samaritani», i «volontari delle beatitudini», i «santi della socialità» che operano con dedizione e intuizioni apostoliche, fanno sintesi tra evangelizzazione e promozione umana, tra conversione e problemi, tra slancio apostolico e soluzioni civili e sociali.
Sta qui la grande intuizione di Adolfo Barberis «uomo di sintesi e di grande attaccamento alla Chiesa» lo definisce il professor Franco Garelli, docente di sociologia dei processi culturali e di sociologia delle religioni all’Università di Torino, che illustra la «Attualità di un carisma torinese». La sua è un’opera apparentemente di minore impatto sociale: «Si occupa di persone che vivono dietro le quinte del benessere. Dedicarsi alle serve sembrerebbe meno eccezionale» rispetto agli altri Santi torinesi: gli ammalati di Giuseppe Benedetto Cottolengo; i preti, i galeotti e i condannati a morte di Giuseppe Cafasso; i ragazzi e i giovani di Giovanni Bosco; gli apprendisti, gli artigianelli, i giovani operai di Leonardo Murialdo.
A Torino le serve, nei primi vent’anni del XX secolo, sono il gruppo sociale più numeroso tra le donne, seguite dalle lavandaie e poi dalle operaie, lavoro quest’ultimo preferito dalle cittadine. Le serve sono in gran parte immigrate e don Barberis è colpito dal fatto che le statistiche allineano Torino alle città del Nord Europa e che il 75 per cento delle maternità illegittime siano di domestiche. Nota il prof. Garelli: «Allora era una delle più radicate forme di schiavitù. Barberis esige che siano rispettate come donne e come lavoratrici; chiede ai datori di lavoro – signorotti, borghesi, aristocratici, ricchi, politici – di trattarle con rispetto e giustizia; crea un punto di contatto tra la domanda e l’offerta, una sorta di ufficio di collocamento».
La sua istituzione deve avere un clima di famiglia, non collegio, non caserma, non laboratorio ma famiglia e quindi «famule». «La Stampa» del 31 agosto 1927 nell’articolo «La scuola delle fantesche. Le ufficialesse di cucina» riporta le sue dichiarazioni: «Le mie ragazze non si chiamano serve ma “famule”. Ci tengono molto alla distinzione e i padroni, trovandosi ben serviti, non hanno difficoltà a mantenere il nome che non intralcia il servizio mentre dà loro una soddisfazione morale senza aumento di salario». E novant’anni dopo sempre «La Stampa» titola: «La casa delle dame di compagnia compie un secolo».
La situazione delle donne è di estrema povertà, l’età media di 16-20 anni, provengono da tutte le Regioni, dal Piemonte – Torino, Alessandria, Asti, Cuneo, Novara, Vercelli, Alessandria e Novara – al Veneto, dal Trentino (specie Valsugana) alla Lombardia, ma anche da Svizzera, Francia, Austria, Germania, Brasile, Russia, Croazia, Inghilterra e Cecoslovacchia. Il 50 per cento delle ragazze non ha genitori, 40 sono figlie di padre ignoto, 10 di madre ignota. Il sociologo Garelli finisce con un grande elogio: «Barberis era veramente un uomo controcorrente. Non c’è mai nessuna sovvenzione pubblica, né allora né oggi. Il Famulato vive sui debiti, allora come oggi».
Conclude la commovente testimonianza di Daniela, collaboratrice domestica proveniente dal Sud-America: «Faccio questo lavoro con amore e dedizione», doti che mette nell’assistere una ultra-novantenne: «Spero che arrivi a cent’anni».