«Don Bosco diceva che ‘con le opere di carità ci chiudiamo le porte dell’inferno e ci apriamo il paradiso’. Papa Francesco ha detto che “essere artigiani della carità è come investire nel paradiso” e che i poveri sono il nostro “passaporto per il paradiso”. Giovanni Bosco e il Papa: due personalità differenti, espressione di due epoche storiche lontane, accomunati dalla stessa fede, dallo stesso amore per i poveri e anche dalle comuni origini piemontesi». Così il card. Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, ha iniziato la sua Lectio magistralis, nella serata di venerdì 9 marzo nella Basilica di Maria Ausiliatrice. La presenza del cardinale Bassetti nella Casa madre dei salesiani ha coronato le celebrazioni del 150° della consacrazione della Basilica voluta da don Bosco.
Il Presidente della Cei è giunto a Maria Ausiliatrice nel pomeriggio di venerdì, accolto festosamente dai ragazzi che frequentano il primo oratorio fondato dal santo dei giovani a Valdocco; ha poi presieduto in Basilica la solenne concelebrazione per ringraziare a nome della Chiesa italiana la famiglia salesiana che con la sua opera educativa dà futuro a tanti giovani, soprattutto quelli meno avvantaggiati. «Un albero grande è nato dal cortile di Valdocco e da questa Basilica» ha sottolineato il card. Bassettii nella sua omelia: «i figli e le figlie di don Bosco sono accanto ai giovani di tutti i 5 continenti, in 130 paesi del mondo». Al termine dell’eucarestia, il cardinale ha reso omaggio all’urna di don Bosco.
In una Basilica gremita è poi seguita in serata la Lectio che il presidente della Cei ha incentrato sul tema «La Chiesa in Italia e il cammino proposto da Papa Francesco» che pubblichiamo integralmente più sotto. Hanno accolto il card. Bassetti l’Arcivescovo Cesare Nosiglia, l’Ispettore dei Salesiani per il Piemonte e la Valle d’Aosta don Enrico Stasi, il rettore della Basilica don Cristian Besso e l’Arcivescovo emerito card. Severino Poletto. Ha introdotto la serata Marina Lomunno, giornalista de La Voce e il Tempo, che ha evidenziato, presentando la biografia del presidente della Cei, come il suo motto episcopale “In charitate fundati” (fondati nella carità), che richiama la Lettera agli Efesini di san Paolo, anticipa e conferma la scelta preferenziale dei poveri a cui da 5 anni ci indica Papa Francesco. «Il card. Bassetti» è stato ricordato è «Arcivescovo di Perugia e Città della Pieve, diocesi retta per trent’anni da Gioacchino Pecci che fu Leone XIII, il papa che ha posto le basi della moderna dottrina sociale della Chiesa che ispirò il ministero dei santi sociali e a noi torinesi. E tanto più qui a Valdocco, l’opzione dei poveri richiama con forza la città dei santi sociali come Cafasso don Bosco, Cottolengo, Murialdo, pionieri della Chiesa in uscita nella Torino dell’Ottocento, dove una grade fetta della popolazione viveva nell’indigenza più assoluta, la stessa città in cui oggi il 40 % dei giovani è disoccupato e in cui le periferie urbane soffrono a causa della crisi economica».
Al termine della Lectio, mons. Nosiglia, ricordando la visita di Papa Francesco a Valdocco, in occasione del Bicentenario della nascita di don Bosco, ha ringraziato così il Presidente della Cei: «La sua presenza qui è segno della grande riconoscenza della Chiesa verso i figli di don Bosco: questa sera voglio ringraziare ancora una volta i salesiani per la comunione fraterna e la collaborazione con la nostra diocesi: uno stile che, ci auguriamo sia modello per tante altre diocesi».
Il cardinale la mattina di sabato 10 marzo prima di lasciare Torino per tornare a Roma ha presieduto la Messa nella chiesa del Sermig. Accompagnato dal fondatore Ernesto Olivero il presidente della Cei ha dunque visitato l’Arsenale della Pace.
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Di seguito pubblichiamo integralmente la Lectio magistralis del cardinale Bassetti:
La Chiesa in Italia e il cammino proposto da Francesco
Cari amici e amiche,
è per me un vero piacere essere qui con voi oggi a compiere una riflessione che prende l’avvio da un duplice anniversario: il 150° anniversario della consacrazione della Basilica di Santa Maria Ausiliatrice e i 5 anni di pontificato di Papa Francesco. Due storie diverse all’interno dell’unico grande albero della fede. Un albero che ci sorprende sempre, che segue delle strade che ci sovrastano e che soprattutto è sempre fecondo: anche se la sapienza è antica e le parole sono sempre le stesse, la fede ci rinnova sempre.
Diceva san Giovanni Bosco che “con le opere di carità ci chiudiamo le porte dell’inferno e ci apriamo il paradiso”. Papa Francesco ha detto che “essere artigiani della carità è come investire nel paradiso” e che i poveri sono il nostro “passaporto per il paradiso”. Giovanni Bosco e il Papa: due personalità differenti, espressione di due epoche storiche lontane, accomunati dalla stessa fede, dallo stesso amore per i poveri e anche dalle comuni origini piemontesi.
Parlare del cammino pastorale proposto da Francesco alla Chiesa universale e in particolare alla Chiesa italiana non è certo semplice. Prima di tutto, perché investe direttamente anche la mia persona nell’incarico istituzionale a cui sono stato recentemente chiamato. E in secondo luogo, perché stiamo vivendo all’interno di un processo tutt’ora in corso. Vorrei partire, però, da un ricordo personale.
Ricordo ancora con commozione e con gioia, la sera del 13 marzo del 2013 quando Papa Francesco si affacciò dalla loggia della Basilica di San Pietro il giorno della sua elezione. Ho una memoria nitida di quel “buonasera” con cui sorprese tutti quanti e soprattutto rammento lo stupore nel vedere questo Pontefice “preso dalla fine del mondo”, su cui l’attenzione dei giornali non si era troppo soffermata nei giorni precedenti, e che era sostanzialmente sconosciuto alla maggioranza dell’opinione pubblica. Non vi nascondo che neanche io avevo mai avuto modo di conoscere personalmente il Cardinal Bergoglio. Solo un mese dopo la sua elezione ebbi modo di parlarci per la prima volta, insieme ai confratelli vescovi dell’Umbria con cui da tempo avevamo programmato una visita ad limina dal Santo Padre. Ebbi subito un’impressione di semplicità, umiltà e vigore sul nuovo Papa. Un’impressione che poi nel corso negli anni si è arricchita molto ma senza mai cancellare le sensazioni di quel primo incontro.
Oggi a distanza di cinque anni si può provare a tracciare un primo bilancio. Un bilancio che però è inevitabilmente solo uno schizzo appena abbozzato di un pontificato ricco di spunti e che, ne sono certo, lascerà una eredità preziosa alla Chiesa.
Vorrei mettere in evidenza alcuni elementi importanti. Il primo elemento si colloca in una dimensione spaziale e temporale. Questo pontificato, sulla linea tracciata da Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II continua infatti ad ampliare lo sguardo profetico sul mondo intero e lo fa con un angolo visuale che non si limita solamente alla comunità cattolica, ma delinea un orizzonte più vasto che investe l’intera umanità e che si configura come una nuova stagione della Chiesa. Una stagione in cui si può cogliere quel “mormorio di un vento leggero” attraverso il quale il Signore si manifesta ad Elia. Un vento docile che porta la vita laddove era solo dolore e sofferenza, e che fa rinascere la speranza laddove risiedeva solitudine e abbandono.
Una nuova stagione che prende forma, in primo luogo, nei luoghi visitati dal Papa. Il più delle volte, luoghi periferici e non al centro del potere politico. Come non citare il primo viaggio di Francesco a Lampedusa per ricordare le vittime delle carrette del mare: i migranti disperati che cercando la vita fuggendo dal proprio Paese trovavano invece la morte sulle nostre coste e sul nostro mare. Oppure come non sottolineare che l’inizio del giubileo della misericordia è avvenuto a Bangui nella Repubblica Centroafricana, nel cuore del Continente più povero del mondo, al centro di sofferenze, dolore e miseria indicibile. E infine è opportuno rammentare le visite e l’attenzione continua ai carcerati, ai disabili, ai poveri e a quelle persone che vengono considerati degli scarti della nostra società.
I luoghi visitati da papa Francesco delineano una nuova geografia umana: una mappa globale delle periferie esistenziali dei tempi odierni. Mentre il mondo è investito da una “globalizzazione dell’indifferenza” che non ci fa più contemplare quelle persone che stanno ai margini della società, il Santo Padre si prende di cura di loro, non solo parlandone, ma andando a trovarli nelle loro città, nei loro villaggi, nelle loro case. Si prende cura di loro, inginocchiandosi, lavandogli i piedi. E magari proprio per questo viene sbeffeggiato e deriso.
Questa nuova stagione, dunque, che alcuni osservatori non esitano a definire una primavera, partendo da queste periferie pressoché sconosciute all’opinione pubblica mondiale, delinea un secondo elemento di questo pontificato: ovvero una nuova prospettiva con cui guardare la cosiddetta questione sociale e quindi un nuovo approfondimento del magistero della dottrina sociale della Chiesa. In questa nuova prospettiva, partendo dal basso, dalle condizioni degli ultimi, la Chiesa italiana è chiamata ad un cambio di passo e a mettere in una relazione feconda alcuni grandi temi che fino ad oggi hanno camminato troppo spesso per strade parallele: mi riferisco ai temi della vita e a quelli sociali.
In altre parole, oggi, partendo dall’Evangelii gaudium e mettendo in correlazione la Laudato si’ con l’Amoris Laetita, si delinea un unico spazio pastorale in cui, partendo sempre dai piccoli e dai poveri – i precari del lavoro come le famiglie spezzate – viene salvaguardata la difesa della dignità umana con la custodia del Creato, la valorizzazione della famiglia con la denuncia di un’economia iniqua.
Queste sfide pastorali, declinate con la nuova prospettiva delle periferie, sono doverosamente guidate sempre da un Centro che si condensa nel mistero dell’incarnazione: ovvero in quel Dio che si fa uomo, in quel Gesù che, come ha ricordato più volte Francesco, non solo “bussa alla porta del nostro cuore solo per entrare” ma soprattutto “bussa anche per essere liberato”. Liberato dalle nostre sovrastrutture culturali, dai nostri schemi teologici, dai nostri progetti pastorali. Questa è la Chiesa in uscita. Una Chiesa che si sente intrinsecamente legata allo spirito del Concilio Vaticano II.
La forte ispirazione conciliare, per il primo Papa che non ha vissuto quella grande esperienza di Chiesa, è un altro elemento caratterizzante di questo pontificato.
Circa 60 anni fa, il 19 marzo 1958, Pio XII invitò i giovani dell’Azione Cattolica “a vivere col massimo impegno la primavera che Dio sta donando al mondo, sta donando alla Chiesa”. Una primavera intesa come “tempo di rinnovamento, tempo di fiduciosa attesa, tempo di speranza”. Giorgio La Pira interpretò queste parole come l’avvento di un “primavera missionaria” verso i popoli dell’Asia e dell’Africa. E infatti, scrivendo a papa Pacelli, asserì con entusiasmo che “una stagione nuova è spuntata nella storia della Chiesa e delle nazioni: la stagione delle «genesi» di popoli e nazioni che cercano il Signore!”. Quella stagione avrebbe trovato, poco dopo, un provvidenziale e inaspettato compimento nell’annuncio del Concilio da parte di Giovanni XXIII. La cui ispirazione, come scrisse lo stesso papa Roncalli, non era maturata dentro di lui “come il frutto di una prolungata meditazione, ma come il fiore spontaneo di una primavera insperata”.
Il Concilio ha rappresentato una feconda stagione per la Chiesa. Una stagione che non ha temuto i profeti di sventura, che ha guardato con sapienza e discernimento ai segni dei tempi, che ha evocato – senza alcun cedimento alla mondanità – la medicina della misericordia e che infine ha messo al primo posto lo spirito missionario: l’annuncio del Vangelo sine glossa. Questi grandi temi del Concilio sono, indiscutibilmente, anche i temi di oggi. Lo sfondo spirituale e concettuale nel quale si muove Papa Francesco è senza dubbio quello ereditato dal Concilio.
“L’antica storia del samaritano – come disse Paolo VI nel discorso di chiusura – è stata il paradigma della spiritualità del Concilio”. Nel prendersi cura degli ultimi, nella “scoperta dei bisogni umani” – è sempre Montini che parla – si fonda il “nostro nuovo umanesimo”. E questo nuovo umanesimo è ancora oggi lo sfondo ideale e pastorale in cui si trova a vivere la Chiesa italiana. Non solo perché la Chiesa italiana su questo tema ha svolto il suo ultimo Convegno ecclesiale di Firenze ma perché attraverso questa categoria noi possiamo congiungere, in una nuova sintesi, il grande tema della povertà con l’altrettanto grande tema dell’antropologia umana.
Questo vigoroso richiamo al Concilio rimanda infine ai due ultimi elementi di questo pontificato su cui vorrei soffermarmi: la centralità dello spirito missionario a cui la Chiesa è chiamata fin dalle sue origini e la sinodalità.
Vorrei essere estremamente chiaro su questi punti: la missione a cui è chiamata la Chiesa italiana non può essere banalmente demandata agli uffici pastorali, ad una struttura diocesana o ad una cattedra teologica. Non si annuncia il Vangelo per decreto o con una conferenza. Al contrario, è una questione che, in virtù del battesimo, ci riguarda tutti, perché, come scrive Francesco nell’Evangelii gaudium, “tutti siamo discepoli missionari”. Questo “rinnovato impulso missionario” si riferisce, pertanto, ad ogni battezzato in Cristo e ci fa essere, come scrive il Papa, degli “evangelizzatori in spirito”.
Mai come oggi, dunque, siamo chiamati a mettere al primo posto delle nostre priorità, non solo diocesane, ma strettamente personali, questo spirito missionario. Tenendo conto, però, di due elementi importanti: in primo luogo, del “grande cambiamento d’epoca” che stiamo vivendo. Un cambiamento che va vissuto con coraggio e grande speranza: il coraggio di chi cerca di comprendere il mondo senza preconcetti; e la speranza di avere sempre Cristo al proprio fianco. In secondo luogo, della consapevolezza che il Vangelo va annunciato sine glossa senza piegarlo ai propri interessi o alle proprie visioni culturali o addirittura politiche. Questo significa, come aveva già intuito Paolo VI, che prima di essere dei maestri, siamo chiamati ad essere dei testimoni autentici dell’amore di Cristo perché l’uomo contemporaneo se “ascolta i maestri” lo fa soltanto “perché sono dei testimoni”.
Non possiamo rimanere fermi, dunque, alle tradizionali abitudini pastorali perché una Chiesa che si muove soltanto per consuetudine è, di fatto – come ho già avuto modo di scrivere – “una Chiesa esangue, statica, senza spina dorsale e in fin dei conti una Chiesa morente”.
Per far vivere concretamente questo spirito missionario, e vengo all’ultimo spunto della mia riflessione, la Chiesa italiana è chiamata ad allontanare da sé ogni forma di clericalismo e di mondanità spirituale, che sono due piaghe ricorrenti per la Chiesa universale di ogni tempo e di qualunque latitudine. In ogni diocesi, parrocchia, associazione o movimento c’è un urgente bisogno di una nuova corresponsabilità tra preti e laici: di un nuovo impegno, da parte di tutti, a vivere la comunità ecclesiale secondo la propria vocazione nell’assoluto rispetto di ogni carisma. Una corresponsabilità che oggi si traduce con un’altra grande eredità del Vaticano II: la sinodalità.
La sinodalità è l’esatto contrario del clericalismo e prende forma nello sperimentare, concretamente, che la Chiesa è un corpo vivo, il corpo mistico di Cristo, e non un insieme di strutture burocratiche. Un corpo vivo, caratterizzato da una koinonia autentica: una comunione fraterna in cui le membra della Chiesa hanno la vocazione di essere in armonia tra di loro e condividono i doni, i carismi e i ministeri.
Per fare tutto ciò, non esiste una formula matematica da applicare, o una strategia pastorale studiata a tavolino. Quello che serve è la conversione pastorale evocata da Papa Francesco. Che non è una legge da mettere in pratica ma è una vera conversione del cuore, del modo di pensare, del proprio modo di essere Chiesa e di un corpo vivo in cui tutte le membra cooperano tra loro parlando con parresia come dice il Papa, «a voce alta e in ogni tempo e luogo».
Cari amici e amiche, concludo questa mia breve riflessione, indicandovi una frase di papa Francesco che sintetizza meglio di altre la cifra di questo pontificato: “noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi”. A mio avviso, questa frase sintetizza lo spirito di questo pontificato. Francesco non si pone come ideatore di un progetto pastorale o giudice di un progetto avviato precedentemente, ma si pone come iniziatore di un processo che è poi portato avanti dal Signore e dallo Spirito Santo e non da uomini. Si tratta di una grande testimonianze di fede per i tempi odierni.
Francesco si fida di Dio perché sa che Lui “fa buone tutte le cose” e quindi si pone come servo inutile a totale servizio, non solo della Chiesa, ma dell’umanità intera. Questo è un grande invito alla conversione. Un invito a fidarsi di Dio e non dei successi degli uomini. Una grande d’ossigeno per il mondo d’oggi e la testimonianza autentica che solo il Signore salva.
Cari amici e care amiche, abbiate fiducia nella Chiesa che è sempre Madre e Maestra e soprattutto non perdete mai la speranza. Perché, come ha scritto magnificamente Charles Peguy, la Speranza è una bambina «irriducibile». Rispetto alla Fede che «è una sposa fedele» e alla Carità che «è una Madre», la Speranza sembra, in prima battuta, che non valga nulla. E invece, afferma Peguy, è esattamente il contrario: sarà proprio la Speranza «che è venuta al mondo il giorno di Natale» che «portando le altre, traverserà i mondi».
Gualtiero card. Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana