Bergman, l’esploratore dell’anima

Il 14 luglio 1918 nasceva il regista svedese. Al centro del suo cinema, inquieto e profondo, il rapporto tra uomo e Dio. Una ‘poesia della sofferenza’, la sua, rigorosa e vibrante, alimentata da una costante ricerca del senso della presenza divina nell’esistenza terrena

2031

Non c’è regista cinematografico che abbia indagato, più di Ingmar Bergman, il rapporto tra uomo e Dio. Non c’è cineasta, più dell’autore svedese (di cui il 14 luglio ricorre il centenario della nascita), che abbia ricercato, in un arco di carriera così ampio e in così tanti film all’attivo (cinquanta lungometraggi in quasi sessant’anni dietro la macchina da presa, comprese le opere per la televisione e senza contare le rappresentazioni teatrali), il senso della presenza divina nell’esistenza umana. Tensioni interiori, spinte metafisiche, una ‘poesia della sofferenza’ riassunta da una poetica introspettiva e trascendente, dolente ed esaltante, sempre sorretta da un ferreo rigore stilistico: sono le tracce, profonde, del cinema di Bergman. Un cinema che oggi appare forse inarrivabile, lontano, quasi dimenticato dopo la scomparsa dello stesso suo autore, avvenuta il 30 luglio 2007, lo stesso giorno della morte di Michelangelo Antonioni.

Eppure, pur in una traiettoria filmica non a senso unico, scandita cioè anche da una vitale leggerezza di sguardo («Una lezione d’amore», 1954, «Sorrisi di una notte d’estate», 1955, «A proposito di tutte queste… signore», 1964) e non solo da una bruciante analisi esistenziale e relazionale («Persona», 1966, «Passione», 1969, «Sussurri e grida», 1972, «Scene da un matrimonio», 1973), i film del regista di Uppsala appaiono anche ai giorni nostri una salutare rimessa in discussione di sé, il percorso, tortuoso, dubitativo ma arricchente, di una necessaria messa a nudo delle coscienze.

Se già nel 1961 Bergman era convinto che nel giro di qualche decennio molti dei suoi lavori sarebbero stati dimenticati dai posteri, è altrettanto vero che, nei suoi personali giudizi, altri film hanno invece sempre occupato un posto di primo piano. Soprattutto quelli incentrati sul rapporto tra uomo e Dio. «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia»: il versetto, tratto dalla prima lettera di san Paolo ai Corinzi, ispira per l’appunto «Come in uno specchio» (1961), il primo titolo della cosiddetta «trilogia del silenzio di Dio», della quale fanno parte anche «Luci d’inverno» (1963) e «Il silenzio» (1963). In «Come in uno specchio» uno dei protagonisti dichiara che Dio «è la certezza che l’amore esiste come cosa concreta in questo mondo di uomini». Aggiungendo: «Non so se l’amore dimostri l’esistenza di Dio oppure se l’amore sia Dio stesso», sapendo però che «questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e disperazione». Forse davvero l’unica ricchezza, grazia e speranza che l’essere umano ha rispetto alla vita, prima di trovarsi di fronte alla morte. Esattamente come accade anche al cavaliere medievale che gioca a scacchi con l’uomo nero con la falce nel celebre «Il settimo sigillo» (1956).

In realtà il raffinatissimo scandaglio individuale e la millimetrica messa a fuoco delle relazioni interpersonali sospese tra Cielo e terra, da parte del regista de «Il posto delle fragole» (1957, Orso d’oro al Festival di Berlino, forse il più bel film in assoluto di Bergman), non paiono caduti nell’oblio. Ne è recente testimonianza «Searching for Ingmar Bergman», il documentario presentato all’ultimo Festival di Cannes con cui Margarethe Von Trotta indaga l’eredità artistica e il ‘lascito personale’ di Bergman. Una prova tangibile delle ‘tracce odierne’ di Bergman raddoppiata dall’annuncio della regista francese Mia Hansen-Løve di voler girare il suo prossimo film, «Bergman Island», interamente a Farö, il rifugio sul Mar Baltico del grande regista.

In effetti, la straordinaria, paradossale irrequietezza di ‘ateo cristiano’ e di ‘esploratore dell’anima’ non è scomparsa insieme a Bergman. Non si può dimenticare l’influenza diretta esercitata sulla sua attrice feticcio Liv Ullmann, autrice nel 1996 di «Conversazioni private» (su sceneggiatura dello stesso Bergman) e nel 2000 de «L’infedele» (scritto ancora da Bergman). Né si può ignorare, prima ancora, il prezioso ‘passaggio di consegne’ a Bille August per la realizzazione di «Con le migliori intenzioni» (Palma d’oro a Cannes 1992, racconto di un decennio nella vita dei genitori di Bergman, dal 1909 al 1918).

Insieme a questa continua entrata/uscita dai confini bergmaniani del suo stesso entourage (che di fatto ha in qualche modo prolungato la carriera del maestro svedese, interrotta ufficialmente nel 1982 con il fluviale «Fanny e Alexander» ma ripresa in prima persona con suggestive ‘opere postume in vita’ che vanno da «Dopo la prova», 1984, a «Sarabanda», 2003) non si possono trascurare nemmeno le dichiarazioni di un altro ‘gigante’ come Stanley Kubrick («non avrei saputo come girare ‘Shining’ senza prima aver visto ‘Il silenzio’») e di un fervente ammiratore come Woody Allen («Bergman ha creato sogni e fantasie ed è riuscito a mescolarli alla realtà con tanta abilità che a poco a poco ne è emerso il senso dell’interiorità umana»).

Questa dichiarazione del regista di «Manhattan», pubblicata a commento dell’autobiografia di Bergman «Lanterna magica» sul «New York Times Book Review» nel 1988, denota non solo la sperticata venerazione di Allen per il regista svedese, ma si configura, pur nelle sue fisiologiche mutazioni, come autentico ‘seme’ dell’eredità bergmaniana sul grande schermo. Uno schermo che, dopo lo scomparsa di Ermanno Olmi, è ancora più assetato di ‘palpiti’ spirituali e squarci di Assoluto.

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