“Caffè Basaglia”, a Torino un impegno lungo dieci anni

Quarant’anni dalla legge – Parla lo psichiatra Ugo Zamburru, tra i fondatori del locale in via Mantova 34 (quartiere Regio Parco) intitolato al medico che chiuse i manicomi: “dare risposte concrete di reinserimento a chi vive la malattia psichica”

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Il Caffè Basaglia a Torino

«Non mettetevi il camice: la gente deve capire chi è il medico dal suo comportamento, non dalla divisa». Sono parole di Franco Basaglia: accolgono a caratteri cubitali e «orientano» chi varca la soglia del Caffè intitolato allo psichiatra che «chiuse i manicomi». Si trova in un vecchio edificio, ristrutturato grazie a centinaia di volontari e benefattori, che ospitò gli storici studi cinematografici Pastrone e poi un opificio militare. Sì, perché i locali di via Mantova 34, zona Regio Parco, non sono solo un circolo affiliato Arci con bar e ristorante «alternativo» dove andare a mangiare o a bere qualcosa con gli amici, ma è un progetto di «inclusione» per i malati psichici e un centro di animazione sociale e culturale per la comunità cittadina.

Per una fortunata coincidenza i quarant’anni dalla legge Basaglia coincidono con i dieci anni dall’apertura del «Caffè Basaglia», iniziativa pionieristica in Italia: oltre ad un libro i cui proventi sostengono progetti di inserimento per persone con fragilità mentali, curato da uno dei fondatori del Caffè, lo psichiatra Ugo Zamburru («I dieci anni del Caffè Basaglia, la voce di chi non ha voce, la voce di sente le voci», ed. Arca), non sono in programma particolari celebrazioni: «Per noi il traguardo di dieci anni di attività» spiega Zamburru, responsabile del Centro diurno di salute mentale dell’Asl 2 di via Leoncavallo, «è solo una tappa di un percorso che vogliamo continuare per dare risposte concrete di reinserimento a chi vive la malattia psichica e di azione culturale sul territorio e per abbattere i pregiudizi e far uscire dal ghetto chi è incasellato nella categoria dei ‘matti’. La nostra sfida in questi dieci anni, sostenuti esclusivamente dall’azionariato sociale di tanti sostenitori e dai clienti che frequentano il nostro Caffè, è quella dell’autosostenibilità: non vogliamo sponsor e neppure sostituirci alle istituzioni preposte alla cura del disagio psichico. Ma cerchiamo di essere un cantiere per stimolare la riflessione e dimostrare che, facendo incontrare in un clima di amicizia e comunità, attorno ad un tavolo, ascoltando concerti, presentazioni di libri, mostre, dibattiti su temi sociali, persone con provenienze e problemi diversi insieme si può uscire dall’emarginazione. E si può cambiare idea su chi come i malati psichici (che non sono solo i classici ‘folli’) ci fa paura».

E come? «Se il cameriere o il cuoco, il musicista, il pittore o l’autore di un libro» sono uomini e donne con sofferenza psichica o appartenenti ad altre «categorie deboli» prosegue Zamburru «e tu cliente ti rendi conto che chi ti sta servendo o chi sta suonando non è ‘matto’ o pericoloso come pensavi, ecco che avviene un incontro tra identità e pian piano si costruisce un patto di cittadinanza dal basso, dove ognuno offre un contributo secondo le proprie possibilità». Il «Basaglia» non è un’utopia di uno psichiatra «visionario» cresciuto nel ’68: colloquiando con Zamburru, sul terrazzo del Caffè con vista sulla Mole dal lato delle periferie dei Santi sociali torinesi, sul valore della comunità per sostenere i più fragili, sulla gratuità e sulla prossimità per uscire dall’isolamento, non ci pare essere tanto lontani dai discorsi che si ascoltano in un centro di formazione professionale salesiano o nelle comunità per disabili del vicino Cottolengo…

Del resto qui sono nove i pazienti psichiatrici assunti regolarmente che turnano come camerieri e aiuto cuochi e una cinquantina i volontari che contribuiscono al «laboratorio di pensiero» e allo spazio di «confronto solidale» che sta alla base dell’idea del Caffè Basaglia. «Nella mia lunga esperienza di medico psichiatra sul territorio», conclude Zamburru, «dopo il crollo del welfare e negli ultimi anni con la crisi economica molti dei disturbi psichiatrici sono causati dalla solitudine, dalla caduta nella povertà: nel centro diurno che dirigo tempo fa ci è stato mandato un uomo di 53 anni, cassintegrato che voleva ammazzarsi; i tranquillanti possono servire per tamponare l’emergenza, ma poi occorrono risposte concrete come lavoro, casa, occorre aiutare le persone a riprendere in mano la propria vita, a rimettere insieme i pezzi per scorgere la luce in fondo al tunnel. Noi proviamo a essere una fiammella creando reti e abbattendo i muri della paura di chi è povero e ci infastidisce perché turba la nostra tranquillità».

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