Cannabis, non basterà vietare

La droga è reato – A fine maggio la Corte di Cassazione ha vietato in Italia gli esercizi commerciali che vendono «derivati dalla coltivazione della Cannabis sativa L». La vendita sarà punita come reato. Pubblichiamo un’analisi di don Domenico Cravero, fondatore di comunità di recupero per tossicodipendenti

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La coltivazione della canapa è diventato improvvisamente un tema di discussione, con il suo carico di confusione e di conflittualità. Non è facile proporre un pensiero non ideologico quando l’argomento allude alle droghe, ma è una riflessione che va tentata.

Esistono diverse varietà di canapa. Ci sono quelle coltivate da sempre nelle nostre campagne per produrre corde e tessuti e quelle originarie dell’Oriente, ricche della resina dall’effetto lievemente psicoattivo. In realtà le due canape non sono facilmente distinguibili. Numerose aziende italiane hanno riscoperto ultimamente nella canapa un’attività agricola abbandonata dai nonni. La legge 242 del 2016 sulla promozione di questa coltivazione e della sua filiera agroindustriale ha spinto ulteriormente in crescita il settore, anche perché l’agricoltura è alla ricerca di nuovi mercati, ecologicamente compatibili, economicamente sostenibili, terapeuticamente utili.

La recente sentenza della Cassazione sembra aver rimesso tutto in discussione. La canapa richiama inevitabilmente, nell’immaginario collettivo, il tema delle droghe. La «marijuana» (non la canapa da sempre conosciuta in Piemonte) incide sul rallentamento dei riflessi e sul mantenimento dell’attenzione. Si conosce anche il suo effetto, per fortuna molto raro, di slatentizzazione di patologie mentali. Nel mio passato lavoro di strada ha assistito qualche volta a questo effetto e ne ho constatato le drammatiche conseguenze.

Da sempre sono conosciute e utilizzate sostanze, di origine naturale o sintetica, capaci di modificare artificialmente gli stati mentali. Ogni società ha dovuto regolarne l’uso e l’abuso, con interventi legislativi (con scarsi risultati) e, soprattutto, con strumenti culturali anche accurati (come l’antichità ha fatto con l’alcol senza ricorrere all’illusione del proibizionismo). Oggi il consumo e il mercato delle droghe si sono diffusi aldilà di ogni possibile controllo. La società sembra ormai arrendersi di fronte al dilagare dei comportamenti di abuso; non sa cosa rispondere alla domanda crescente di sostanze o esperienze psicotrope.

La distinzione, generalmente accettata, tra uso, abuso e dipendenza si rivela utile per parlarne in modo non riduttivo. Degli stupefacenti si può fare un uso giustificabile. Si ricorre alla morfina, per esempio, come palliativo nella cura del dolore terminale. Delle droghe si può però abusare, quando gli effetti negativi sulla salute e sulla qualità della vita sono ingiustificabili, perché il danno riportato non è in alcun modo commisurabile al momentaneo sollievo procurato. Le droghe pongono quindi una domanda etica: se sia giusto il consumo di una sostanza che non risolve alcun problema e può avvelenare la vita a sé e agli altri.

In un prossimo futuro certi fenomeni, ora considerati problematici, potrebbero essere risolti con relativa «facilità»: i tossicomani potrebbero essere relegati in isole protette, dove consumare la loro dipendenza senza dare noie, le politiche sociali potrebbero delegare interamente all’industria del divertimento l’aggregazione degli adolescenti, la preoccupazione educativa potrebbe essere considerata esclusiva del privato familiare. I governi si stanno sempre più interrogando sull’opportunità di liberalizzare il consumo di certe droghe con il consenso crescente dell’opinione pubblica, oppure operano tagli ai bilanci destinati alle politiche giovanili. Abuso e tossicomania potrebbero non rappresentare più una minaccia sociale, rimarrebbero ipocritamente scelte individuali. Il «disagio» potrebbe essere lasciato alla «società compassionevole» (Milton Friedman). Si tratterebbe però di scelte di civiltà?

Alla canapa sono attribuite anche qualità terapeutiche. Tocchiamo qui un tema sensibile. Non si farà mai abbastanza per curare e alleviare il dolore e la proposta di terapie efficaci è sempre provvidenziale. Non si può tuttavia negare la tendenza a voler trovare ovunque sintomi e patologie, fino a immaginare il mondo trasformato in un’immensa «clinica», dove a ogni difficoltà e problema è pronta una terapia e ogni disagio è affidato al suo specialista. Questa grande clinica non è necessaria. Esistono certo anche sofferenze cliniche, ma la soluzione da ricercare sta altrove, nell’operazione inversa: trasformare la «clinica» in società, dove non esistano solo obiettivi individuali ma anche beni comuni e dove il benessere si misuri come qualità della vita, dove le strategie inclusive dell’amore, del diritto e della solidarietà rispondano a quella domanda di sicurezza, dettata oggi molto spesso dalla incomunicabilità con i vicini e dal sospetto verso i lontani. Vero piacere della vita sono gli affetti, autentica libido è l’uso creativo e intelligente della mente, garanzia di sicurezza non sono le armi ma i legami e i rapporti di fedeltà.

È forte la tendenza a proiettare sulle droghe (proibendole o liberalizzandole) i fantasmi delle inquietudini e delle incompetenze degli adulti. Servono oggi educatori convinti che non è solo la droga il rischio mortale dei giovani ma quella vita senza sogni e senza affetti, senza progetti e senza speranza, che quotidianamente essi respirano nei loro ambienti di vita, nella cultura incerta della scuola, nel lavoro di pura prestazione, nel sentirsi ai margini, eppure ammaliati, di un mondo di efficienza e di immagine. Questa rassegnazione i ragazzi la assorbono anche in casa, nelle conversazioni vuote e banali, nella possessività e nell’incertezza affettiva, nel disorientamento dei valori e delle scelte, nei servizi del pubblico e del privato, quando la burocrazia e il predominio del codice monetario, soffocano la speranza di riscatto e di futuro.

La «cultura degli analgesici» (Leszek Kolakowski) ha sempre più successo. Questa è una brutta notizia per un paese che ha un bisogno vitale dell’apporto delle nuove generazioni, della loro creatività e della loro lucida intelligenza. Le droghe uccidono il rinnovamento economico e sociale, perché intaccano proprio queste risorse. Sono pure risposte di evasione e di compensazione, fuga dalla responsabilità e genialità soffocata, protesta prevenuta e ridotta al nulla: «La narcotizzazione della vita è nemica del vivere in comune umanamente. Quanto più diventiamo incapaci di sopportare il nostro proprio dolore, tanto più facile ci diventa tollerare la sofferenza altrui» (Presenza del mito, p. 141).

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