Cappellani militari: da Torino alla Grande Guerra

Storia – L’amicizia dell’Arcivescovo Richelmy con il generale Cadorna favorì il ritorno nell’esercito dei preti cattolici, aboliti nel 1878. Nelle trincee i sacerdoti, come i soldati provarono sulla loro pelle quanto la guerra fosse «inutile strage», come la definì Benedetto XV

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I cappellani militari della Grande Guerra sono nati a Torino, città sabauda per eccellenza, della quale era cardinale arcivescovo (1897-1923) Agostino Richelmy, l’ultimo torinese sulla cattedra di San Massimo. La sua amicizia con il comandante in capo, generale Luigi Cadorna, favorì il ritorno nell’esercito dei preti cattolici.

Nel 1859 l’armata piemontese conta 40 cappellani di reggimento di Fortezza e delle Accademie e Scuole militari. Anche gli altri Stati d’Italia hanno l’assistenza religiosa: via via che vengono annessi al Piemonte, i cappellani entrano nel clero castrense subalpino. Nel 1865 gli organici sono al completo con 189 sacerdoti. Da quell’anno il loro numero si riduce, sino alla sparizione. La ragione addotta sono i tagli di bilancio; la verità è che i governi, prima e dopo l’Unità, sono anticlericali e l’hanno vinta i politici e gli alti gradi militari iscritti alla massoneria: i cappellani sono aboliti definitivamente nel 1878.

Nella guerra di Eritrea, nel 1896, i caduti di Adua e Adìgrat non avrebbero avuto i conforti religiosi se i missionari cappuccini italiani non si fossero prestati. In Libia, nel 1911, i soldati sono assistiti da pochi sacerdoti reclutati per gli ospedali, e dai cappuccini reclutati dalla Croce rossa. Allo scoppio della Prima guerra mondiale si avverte la necessità dei cappellani. Luigi Cadorna è un cattolico convinto ed è amico di ecclesiastici piemontesi e non; il governo è convinto che il prete tra i soldati sia un elemento di equilibrio e conforto non solo per malati, feriti e moribondi, ma per tutti i combattenti. Con una circolare del 9 marzo 1915 Cadorna ristabilisce i cappellani che vengono assegnati ai reparti direttamente dai comandi militari: 2.048 nell’esercito, 15 nella Marina, 1 alla Croce rossa, 6 all’Ordine di Malta. Dopo la disfatta nel 1917 di Caporetto (di cui sono responsabili, tra gli altri, i generali subalpini Cadona, nativo di Pallanza, Novara, Luigi Capello, novarese di Intra, e Pietro Badoglio di Grazzano, nel Monferrato) il nuovo comandante, generale Armando Diaz, affida a dodici cappellani il compito di visitare tutte le unità per ridare fiducia, slancio, morale ai soldati.

Il 1° giugno 1915 mons. Angelo Lorenzo Bartolomasi, torinese di Pianezza e vescovo ausiliare di Richelmy, è designato da Benedetto XV «vescovo di campo»: imprime una forte impronta all’assistenza spirituale. A un prete che si rifiuta di andare in trincea, ricorda che il cappellano è «un eroe e un servo inutile. Il tuo posto? È dovunque ognuna di quelle anime che ti sono state affidate corre il pericolo di presentarsi da un momento all’altro al tribunale di Dio. Ma questo è eroismo! Sì, il mondo può chiamarlo eroismo. Ma nel codice apportato da Cristo l’eroismo del mondo in certi casi, come per il parroco in tempo di peste, come il cappellano militare in tempo di guerra, come per il cristiano in tempo di persecuzione, diventa un dovere. Dovete trasformarvi in eroi per poter dire con perfetta semplicità e con tranquilla coscienza: ‘Siamo servi inutili’». Tutti amano Bartolomasi, vescovo dell’Italia in armi: non rimane a Roma, ma segue l’esercito al fronte. Dopo Caporetto anche lui è contestato e alcuni cappellani sono accusati di disfattismo. Ma la loro opera è riconosciuta come altamente meritoria.

Il Piemonte fornisce il più alto numero di cappellani militari: tra i 2.648 tra cappellani e «aiuto» i subalpini sono: 438 cappellani (366 diocesani, 72 religiosi) e 77 «aiuto». In totale 515 e Torino 72 cappellani e 16 «aiuto». Bisogna aggiungere 15 mila preti e religiosi, esclusi i parroci, e 10 mila chierici soldati mobilitati (da Torino 382 preti e 122 chierici). Numerosi finiscono in trincea. Molti vivono continui traumi: l’impatto con la guerra combattuta, le assurdità nella conduzione delle operazioni, lo scontro con gli ufficiali che considerano le truppe «carne da macello», le disperate condizioni di vita, il confronto con altre mentalità e culture, la tragedia quotidiana della morte, l’ecatombe di vite umane. I preti in grigioverde devono adottare comportamenti contrari alla loro vocazione e missione, come sparare per uccidere il nemico. Tutto questo provoca crisi tremende.

Per questo, dopo la guerra, la Congregazione concistoriale il 25 ottobre 1918, con il decreto «De clericis e militia redeuntibus», obbliga i reduci a fare un corso di esercizi spirituali di otto giorni eos omnes a mundano pulvere detergere, per ripulirli dalla polvere mondana. Nelle trincee i preti, come i soldati, si coprono di polvere ma anche di pidocchi, pulci, freddo, pioggia e neve e provano sulla loro pelle quanto la guerra è «inutile strage», come la definì Benedetto XV. Scrivono pagine di eroismo e dedizione. Nel documentato volume «I cappellani militari d’Italia nella Grande Guerra. Relazioni e testimonianze (1915-1919)», mons. Vittorio Pignoloni, una vita dedicata all’apostolato tra i militari, fa memoria dei sacerdoti, cappellani militari e preti-soldati che offrirono la vita in trincea, accanto ai soldati impegnati in aspri combattimenti: 93 cadono sul campo; vengono conferite 546 decorazioni: 3 medaglie d’oro, 137 d’argento, 295 di bronzo, 95 croci al valore militare, 12 decorazioni civili e 4 decorazioni estere. Ventidue cappellani del Piemonte (6 di Torino) caduti e dispersi; 34 e 7 decorati con medaglia d’argento; 50 e 10 con il bronzo.

«In quei giorni della mia giovinezza sacerdotale, ho servito la Patria, la Chiesa e la mia vocazione. Ho imparato, ho allargato, ho perfezionato il sacro ministero che in seguito avrei esercitato in tante e diverse circostanze, ma che non sarebbe stato mai più tanto vicino alle anime». La confidenza è del più celebre tra i cappellani, don Angelo Giuseppe Roncalli. Diciannovenne, presta servizio militare dal 13 gennaio 1901 al 30 novembre 1902. Allo scoppio della guerra è richiamato in Sanità. Dal 28 marzo 1916 al 10 dicembre 1918 è cappellano dell’ospedale militare di Bergamo, organizza la «Messa del soldato» e coordina l’assistenza. Divenuto Papa, Giovanni XXIII descrive il cappellano «un delicatissimo ministero di pace e amore, un aspetto preziosissimo dell’apostolato, una possibilità immensa di bene. Vanno verso schiere innumerevoli di anime giovanili, robuste e gagliarde, ma esposte a gravi pericoli per indirizzarle e formarle al bene».

E don Primo Mazzolari, prete-profeta del quale è cominciata la causa di beatificazione, annotava amaramente sul suo diario: «Di pace, oggi, abbiamo fame e sete come non mai. Ci siamo fatti tanto male durante la guerra: ci siamo odiati, straziati, uccisi, torturati per quattro anni, senza tregua, senza cuore, come le belve forse non fanno. E chiusa la guerra, non abbiamo saputo buttar fuori da noi l’odio, smobilitare l’animo». Una bella differenza con l’interventista convinto della prima ora e cappellano militare durante la Prima guerra mondiale: segnato in maniera indelebile dall’esperienza bellica, si convinse che la guerra lacera gli animi, deteriora i rapporti, non risolve i problemi.

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