È là, sulle sponde del Grande Fiume, «parrocchia oltre Po a Casale» che ha preso forma lo stile di Severino Poletto: preghiera, attenzione alla formazione di ragazzi, giovani, famiglie, contatti diretti con i sacerdoti, sguardo alla parrocchia, all’Italia, al mondo: l’odore delle pecore, come dice Papa Francesco, in un quartiere operaio e popolare. Una formula difficile da mettere insieme che non è mai cambiata né a Fossano, neovescovo, né ad Asti, negli anni dell’alluvione del 1994, «giorni terribili», né a Torino.

«È là dove io, figlio di immigrati, parroco da cinque anni, ho conosciuto la ricchezza spirituale delle famiglie, degli operai!». Anche lui ha fatto l’esperienza della fabbrica, e l’ha coniugata con la condivisione, le missioni per tutti, l’evangelizzazione, l’annuncio del Vangelo. Ha sempre puntato sulla formazione, e non solo quella delle nuove generazioni; ha lavorato per prevenire ed intervenire sulla crisi delle famiglie e delle persone perché nessuno si sentisse e si senta abbandonato nel vorticoso mondo che ha visto la crisi di affetti, la crescente disgregazione dei nuclei familiari, il rimescolamento di vite, la solitudine delle persone.
Quarant’anni fa la nuova chiamata e poi Vescovo per mano del card. Anastasio Ballestrero, nel duomo di Casale Monferrato.
Eminenza qual è la sensazione più forte del giorno della consacrazione che poi l’ha accompagnata per tutta la vita?
«Quella del cambiamento e del rovesciamento della mia prospettiva di vita. Ho capito che era entrato in me il virus della missione. Quello è stato per me, da allora ancora di più, il chiodo fisso. Le Unità pastorali, le visite in ogni parrocchia, il focus sull’annuncio ai bambini, ai giovani, alle famiglie, l’ascolto: ecco la mia strada attraverso il Piemonte».
Il passaggio prima a Fossano, poi ad Asti. Il cardinale richiama le immagini di quegli anni.
«Fossano ed Asti sono state due tappe fondamentali del mio ministero, che passava da una prospettiva parrocchiale a diocesana con enormi responsabilità».
L’arcivescovo emerito di Torino ricorda davvero tutto: le date, gli incontri, le persone, i colloqui riservati che continua ad avere in questa casa sulla collina di Moncalieri di proprietà della diocesi. Ha 87 anni; per undici ha guidato Torino attraverso una metamorfosi profonda, complessa, variegata: da una cultura mono-industriale dell’auto ad una economia multitasking e alle nuove frontiere.
Ecco, che città ha trovato nel 1999?
«Ho incontrato dei sacerdoti genuini, veri, impegnati, generosi, aperti. Ho toccato con mano prima l’industrializzazione, poi le prime avvisaglie della crisi, quella dell’Embraco, per fare un esempio. Ho visto le prime ondate dell’immigrazione, i cortei di protesta, i timori della gente. Per questo ho voluto conoscere e colloquiare con tutte le realtà della diocesi, per ascoltare, per capire, per agire».
Torino è stata la sua «grande città», una città bella ma difficile: il primo pensiero quando è arrivato?
«È stato ascoltare i battiti del cuore di una città in evoluzione. Di qui i primi convegni ‘La Chiesa dialoga con la Città’ e ‘Costruire insieme’. Ho sentito una Torino generosa, dal grande cuore, erede vera della tradizione di solidarietà dei santi sociali, dal Cottolengo a don Bosco. Allora ho affidato la Caritas ad un laico, Pierluigi Dovis, e sono cominciati i primi passi che, in questi anni di grandi prove, hanno dato sfogo ad una fantasia dell’amore del prossimo che è davvero una punta di diamante della nostra vita. Ho incontrato un popolo di laici impegnati, moderni, generosi, con una mentalità aperta, sempre in ricerca, che ha collaborato alla costruzione di una comunità con un minimo comun denominatore, la solidarietà».
Il momento più triste?
«Sicuramente i morti alla Thyssen. Li ho visitati tutti negli ospedali e li ho accompagnati. Non ho mai provato così tanta tristezza. Ma non ho mai abbandonato le loro famiglie e, ogni giorno, porto tutti con me nelle mie preghiere».
Quanti Papi ha accompagnato?
«Quando San Giovanni Paolo II è venuto per la prima volta, io ero vescovo, non ancora consacrato, da appena tre giorni. Lo ricordo nel ’98 in piazza Vittorio, giorni impregnati di spiritualità. E ancora al Valdocco e nei luoghi-simbolo di Torino. Poi papa Benedetto XVI e la sua meditazione davanti alla Sindone e papa Francesco quando io ero già arcivescovo emerito. Sono esperienze incise nella mia vita».
Ecco, la Sindone, che ora abbiamo visto l’11 aprile in tv, lei ha guidato due ostensioni nel 2000 e nel 2010…
«Una bellissima idea. L’ho detto a monsignor Cesare Nosiglia. Guardare quel volto, che io credo sia davvero il volto di Gesù e leggervi il dolore della pandemia e delle sofferenze del mondo, è stato un gesto che ha fatto molto bene a tutti. Ha messo in contatto le sofferenze dell’umanità con quelle del Signore. Ha fatto toccare con mano a tutti la tristezza di vedere, in queste lunghissime settimane, le chiese senza fedeli. Ha reso umana la tristezza di immaginare la morte di tante persone sole, in ospedale, senza neppure il conforto di un funerale vero, delle preghiere e dell’abbraccio dei loro cari. Non è un caso che la parrocchia creata con la Curia nuova ho voluto che fosse intitolata ‘Il santo Volto’».
Lei ha attraversato gli anni della grande Fiat, della crisi, dell’addio all’Avvocato Agnelli…
«È vero. Ho assistito spiritualmente Giovanni Agnelli nella fase finale della sua vita. Ho celebrato una Messa a Villa Frescot quando lui era già moribondo. Ho cercato di stargli vicino e di accompagnarlo con i sacramenti della fede cristiana perché penso sia stato un credente convinto. Ricordo l’addio in Duomo: un momento significativo e toccante».
Sicuramente uno di quei momenti-spartiacque nella vita di Torino. Lei è entrato in conclave più volte. Cosa si prova nella cappella Sistina?
«Come tutti ho vissuto con grande sofferenza la morte di Giovanni Paolo II, con gioia la nomina di Benedetto XVI e di papa Francesco. La gente pensa che partecipare all’elezione del pontefice sia un’esperienza onorifica, ma per me sono stati momenti di estrema e pesante responsabilità. Momenti dopo i quali, con gioia, sono tornato nella mia Torino».
La ricordo, nel suo stile di vescovo, accanto a mia mamma che stava morendo di tumore, nell’ospedale di Fossano. Gesti che non ha mai smesso di fare, anche ora, perché è legato fortemente al bisogno di spiritualità della gente. Tanto più ora. Stiamo attraversando un momento epocale e veramente triste, cosa direbbe alla sua città che conta i morti, le famiglie spezzate, gli affetti infranti e sente la paura del contagio?
«Direi a tutti di pregare ancora di più perché il Signore ci liberi da questa pandemia che ci ha obbligato ad assistere la Messa, grazie alla fantasia dei sacerdoti, solo in tv e vivere l’eucaristia in streaming. Ora non più. Il Signore ci aiuterà e lo sta già facendo. Torneremo in chiesa tra poco».