Caselli sulle carceri: giustizia e umanità per una vera sicurezza

Intervento – L’ex magistrato simbolo della lotta alla mafia commenta il piano di edilizai penitenziaria: “Se paura e insicurezza diventano occasioni di investimento avremo non riforme vere, ma gesti simbolici, sorretti da un’indignazione di facciata”

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Paura e insicurezza sono oggi un dato obiettivo, alimentato da molteplici fattori: dalle televisioni globali, che ogni giorno rovesciano nelle nostre case scene terribili di guerra, terrorismo, disastri, fame, malattie; al lavoro che spesso manca del tutto oppure è mal retribuito (i nostri salari sono tra i più bassi in Europa), o è precario, nero, insicuro (deteniamo un triste record in tema di infortuni sul lavoro); e poi i prezzi e il costo della vita sempre più alti, con la povertà – sia assoluta sia  relativa – che ha raggiunto livelli vertiginosi.

Gian Carlo Caselli

Alla paura e all’insicurezza come dato obiettivo dobbiamo sommare la percezione soggettiva. Spesso chi dovrebbe risolvere i problemi li individua come un potente veicolo di consenso e perciò li alimenta. Spregiudicate campagne politiche e massmediatiche gonfiano e moltiplicano paura e insicurezza, dispensando insieme – sempre per raccattare consenso – speranze illusorie di rimedi fantastici. Ed ecco  l’obiettivo ultimo: spingere verso soluzioni sostitutive rispetto ai ‘veri’ problemi. La principale soluzione sostitutiva oggi è l’avversità per il diverso, diverso perché migrante, straniero o rom. Una paura sostitutiva che appanna e marginalizza quelle vere. Ed il consenso è salvo, anzi cresce.

Ma attenzione. In questo modo la paura e l’insicurezza non sono più mali da curare: diventano opportunità di investimento. Prima si alimenta la paura per espanderla artificiosamente; poi, invece di governarla, si finisce per restarne governati: con il pericolo evidente di derive oscure.

La sicurezza (‘rubo’ la formula a Luigi Ciotti) rischia di diventare una specie di killer. Nel senso che la sua strumentalizzazione può pregiudicare decenni di lavoro sulle radici della violenza. Se la paura e l’insicurezza diventano occasioni di investimento, facilmente avremo non riforme vere, ma gesti simbolici e  rassicuranti, sorretti da un’indignazione di facciata. Impariamo a vivere nell’ostilità e nel pregiudizio, muro contro muro, con tracotanza crescente. Ma questa non è più vita, cambia in negativo la qualità stessa della nostra vita. Anche perché si comincia in un certo modo e poi non si sa dove si va a finire. Oggi i migranti, gli stranieri e i rom, domani chissà. La malintesa esigenza di sicurezza può facilmente tracimare in intolleranza, cattiveria, disumanità, eclissi di misericordia.

E ancora, se intese come terreno da sfruttare anziché problema da risolvere, paura e insicurezza si autoalimentano. Perché le poche o tante risorse a disposizione saranno convogliate su controlli e sempre più controlli, su forme di repressione, nuovi reati, nuove prigioni etc. Sempre di meno invece saranno le risorse impiegate per scuole, ospedali, alloggi, più lampioni in periferia, trasporti pubblici meno degradati, politiche di inserimento e di accettazione. Col risultato che nel medio-lungo periodo l’insicurezza invece di diminuire rischia di aumentare. Ecco un pericoloso cortocircuito, che si innesca quando non si superano i luoghi comuni, le superficialità, le banalità di massa.

Su queste premesse va proiettato il complesso universo dell’esecuzione penale. Da una parte troviamo l’esigenza della collettività che chiede convivenza pacifica, sicurezza e giustizia. Dall’altra il bisogno di correggere senza schiacciare, senza annullare la dignità e la speranza di chi ha sbagliato, senza restare prigionieri di logiche vendicative, che finiscono per disumanizzare la pena ostacolando ogni prospettiva di recupero e reinserimento.

La psicologia di chi sta fuori si esprime con frasi del tipo: «Buttiamo via la chiave», «Se lo sono voluto». Ma con questa cultura chi ha sbagliato viene spinto verso nuovi errori. E così si innesca una spirale che crea sempre maggiore insicurezza, l’esatto opposto di quel che chiede la collettività.

Una complessità nella complessità è rappresentata dalle diverse tipologie di detenuti: non tutti con gli stessi problemi, pericolosità e capacità di reinserimento sociale. Crescono, negli ultimi anni in misura esponenziale, i problemi di multiculturalità, con molteplicità a volte difficilmente conciliabili di valori di riferimento.

La strada giusta sarebbe rendere le sanzioni alternative al carcere capaci di rispondere al bisogno di sicurezza, così da ricorrere alla pena detentiva davvero come extrema ratio. Ma per gli extracomunitari irregolari c’è l’ostacolo ontologico – che il ‘decreto sicurezza’ voluto dal vicepremier Salvini finirà inesorabilmente per aggravare – della mancanza di alcuni requisiti fondamentali (casa e lavoro), ciò che perpetua  – appesantendolo – lo  scandalo che il carcere è tendenzialmente una ‘discarica’ per i poveracci, mentre i ‘colletti bianchi’ (in specie evasori fiscali e corrotti) ne sono di fatto esentati.

Un’altra risposta consiste nella ricerca di una maggiore individualizzazione del trattamento penitenziario, insieme alla differenziazione degli istituti e negli istituti. Ciò per utilizzare al meglio le risorse di cui si dispone, per lo più insufficienti.

Per altro, tutto si complica ulteriormente a causa del sovraffollamento (con la conseguente riduzione, ai limiti della scomparsa, financo degli spazi materiali occorrenti per le attività di trattamento e recupero). Un problema sempre incombente, nonostante vari interventi imposti di fatto dall’Europa per tamponare le emergenze. Un problema che di recente va riproponendosi in maniera massiccia ed insostenibile anche in Piemonte, come dimostrano i dati rilevati dal Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano sulla situazione dei 13 istituti piemontesi. Un autentico dramma, che non si può sperare di risolvere facendo affidamento soltanto sulla crescita professionale che (sia pure con luci ed ombre) caratterizza ormai da tempo il personale penitenziario.

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