Un secolo fa, durante la Grande Guerra (1915-18) la diocesi di Torino, con in testa il cardinale arcivescovo Agostino Richelmy, «divenne un cantiere di aiuto per tutte le vittime della guerra. Per il coordinamento delle attività il braccio destro dell’arcivescovo era il segretario don Adolfo Barberis». Lo ricorda lo storico don Giuseppe Tuninetti. In arcivescovado funzionano l’Opera per l’assistenza ai profughi veneti e l’Ufficio di assistenza e informazione per soldati, profughi e prigionieri. Francesco Grand-Jean nel 1919 pubblica «Carità di porpora. L’opera del card. Agostino Richelmy, arcivescovo di Torino per i soldati e i profughi durante la guerra di liberazione 1915-18».
L’arcivescovo compone una «preghiera alla Consolata pei nostri soldati in guerra»: invoca «confort, coraggio e ardore»; intreccia l’amore di Patria e la devozione alla Madonna; si appella a Gesù «re della pace e Dio delle vittorie» (delle armi italiane); si rivolge a Maria perché interceda presso Gesù; invoca la consolazione delle madri angosciate per la sorte dei figli; affida le speranze a Gesù «re della pace»: «Maria, dite per noi una parola a Gesù; e Gesù ci guarderà con occhio di amore; e noi gusteremo le dolcezze della benedizione di Gesù, che è il Dio delle vittorie, il re della pace. Santi di Casa Savoia, pregate per il vostro figlio e nostro re: conduca egli l’Italia a una pace gloriosa e duratura».
Nella lettera pastorale per la Quaresima 1915 parla delle «tristi circostanze della guerra»; segnala «il dovere dell’ora presente: penitenza ed espiazione»; sostiene che «la fede insegna a conoscere nel peccato la sorgente delle disgrazie e a credere che Dio possa trarre dal male il bene»; invita «ad abbandonare le false massime del mondo per seguire i dettami del Vangelo»; condanna «la corruzione dei costumi e l’immoralità della stampa»; invita a sostenere il quotidiano cattolico «Il momento».
Uno dei centri più attivi è il santuario della Consolata. Il rettore don Giuseppe Allamano nel 1899 fonda il mensile «La Consolata». La festa patronale del 20 giugno è vissuta come «auspicio di vittoria per le armi italiane» con l’invocazione «O Maria, consolateci come avete consolato i padri nostri». Informa la rivista: «Il nemico strapotente aveva sferrato la più formidabile offensiva, un urto non più di sole armate, ma di popoli su un fronte di 150 chilometri. E il popolo italiano partecipava alla lotta titanica in trepidazione, sospiri e preghiere. Poteva la nostra Madre Consolatrice rimaner sorda a fante lacrime, a tante suppliche?». Un telegramma la notte del 24 giugno 1918 annuncia: «La vittoria nostra è assicurata e il nemico è addossato al Piave mercé la strenua tenacia e l’irruente impeto delle truppe nostre». Sono ospitati nel convitto annesso al santuario alcuni sacerdoti del Nord-Est, tra questi mons. Antonio Anastasio Rossi, arcivescovo di Udine. L’11luglio 1918 il card. Richelmy benedice quattro gonfaloni per le brigate Piemonte e Torino.
Per la vittoria, alla Consolata si canta il «Te Deum» per la «completa unità della Patria e i fecondi progressi della pace»: un primo il 7 novembre con grande concorso di fedeli e di soldati e «con il fremito provocato dalla voce possente della grande campana salutante, insieme con lo sventolio dell’ampio tricolore issato sulla torre romanica del campanile». Preceduto da un triduo il 23 novembre c’è il «Te Deum» ufficiale, presenti principi sabaudi e mutilati «rappresentanti degli eroici sacrifìzi».
Tra gli «ex voto» c’è il bronzo di Pietro Canonica, grande scultore e musicista torinese di Moncalieri, «La pace che vola sui campi di battaglia». Donato con una sottoscrizione. è inaugurato nel 1927. Canonica è membro dell’Accademia d’Italia, senatore a vita e autore del monumento ai Cavalieri d’Italia in piazza Castello. Il bronzo, progettato nel 1914 per il monumento allo zar Alessandro II, non concluso e mai consegnato, è modificato come ex voto. Recita la scritta: «Madre del dolore e della consolazione regina della vittoria e della pace vergine che ascoltate egualmente la prece sublime e l’umile preghiera accogliete questo omaggio riconoscente di un popolo fidente in Dio di anime a voi fedeli di cuori amanti della Patria». Nel luglio 1919 Richelmy benedice all’esterno del santuario un pilone votivo, dono dei soldati italiani «a perenne ricordo della riconoscenza verso la Grande Madre che diede vittoria alle armi italiane». L’arcivescovo dedica la lettera pastorale 1919 ai «Doveri dell’ora presente»: ringraziamento per la fine della guerra; necessità della preghiera; impegno per «il conseguimento della tranquillità pubblica, l’ordine e il rispetto alle autorità costituite».
Nel mondo contadino la guerra è sempre stata considerata inevitabile, da sopportare con rassegnazione, cercando di soffrire il meno possibile e di portare a casa la pelle. Ma nella Grande Guerra la fede è l’unica capace di dare una risposta all’angoscia. Ciò spiega la forte presenza del tema della guerra negli ex voto dei santuari subalpini.
Molto intensi sono i rapporti del clero con i fedeli a casa (parroci) e con i soldati al fronte (cappellani militari e preti soldati). La Chiesa si impegna nell’assistenza ai soldati e alle famiglie. In Italia la mistica guerresca è meno accentuata nella consapevolezza che sono in guerra due grandi Paesi cattolici, Italia e Austria. Vescovi e preti sostengono i combattenti e le loro famiglie. In una lettera pastorale mons. Giovanni Battista Rossi, vescovo di Pinerolo, elogia chi «fatto sacrifizi finanziari in favore dei soldati combattenti o prigionieri, nostri concittadini vittime della sventura».
Determinante il sostegno dei cappellani militari ai soldati, ai quali la vicinanza della morte ispira atteggiamenti di fede e devozione: circolano santini, immagini religiose, preghiere. Don Giuseppe Delmonte, parroco di Luserna San Giovanni, colpito da una scheggia, muore al fronte Nella notte 29-30 giugno 1916. Il settimanale cattolico «L’Eco del Chisone» il 22 luglio narra: « il suo battaglione doveva portarsi dalla seconda alla prima linea. L’aiutante maggiore esortò il cappellano a rimanere per quella notte a riposare nella baracca della seconda linea che distava un quarto d’ora dalla prima. Al mattino seguente avrebbero potuto raggiungere la nuova residenza, ma don Delmonte, temendo che durante lo spostamento qualche suo alpino rimanesse ferito, raggiunse il posto di medicamento avanzato e fu ucciso».
Il cappellano don Silvio Solero, torinese di Mondrone, racconta di un soldato che «cadde vicino a me e morì fulminato da una grossa scheggia di artiglieria che prima spezzò un grosso ramo d’albero, poi rimbalzò sul soldato squarciandogli il petto. Vidi che il cuore palpitava ancora attraverso il petto aperto. Un suo compagno fu ferito a un braccio, che restò quasi sfracellato. Composi io le tombe anche di un secondo caduto che morì sotto la tenda, colpito da una pallottola durante un bombardamento notturno».
Incessante l’invito di Benedetto XV alla pace, come la «Nota ai capi dei popoli belligeranti» (1° agosto 1917) «Dès le début. La lutte terrible, qui apparaît de plus en plus comme un massacre inutile»; definisce la guerra una «inutile strage»; parla di «follia e suicidio dell’Europa. Il mondo civile dovrà ridursi a un campo di morte? E l’Europa correrà, quasi travolta da una follia universale, incontro a un vero e proprio suicidio?»; chiama la pace «grande dono di Dio»; condanna il liberalismo; scongiura i contendenti a comporre pacificamente le contese; si offre come mediatore; indica i sette «punti fissi per una pace giusta e duratura», visionati anche da mons. Eugenio Pacelli, giovane nunzio in Baviera: disarmo delle parti, arbitrato internazionale, libertà dei mari, elenco dei danni di guerra, spese di guerra, evacuazione dei territori occupati, indipendenza del Belgio. Con «Quod iam diu» (1° dicembre 1918) indice pubbliche preghiere per la conferenza di pace: «Tace finalmente il fragore delle armi: non ancora la pace ha solennemente posto fine alla grande guerra»; con «Paterno iam diu» (24 novembre 1919) indice una raccolta di offerte per i fanciulli indigenti; in «Annus iam plenus est» (1° dicembre 1920) rivolge un nuovo appello per i fanciulli che soffrono le conseguenze della guerra.