La Chiesa non è straniera in nessun popolo. È l’idea portante della lettera apostolica di un secolo fa «Maximum illud» (30 novembre 1919), «magna charta» del nuovo corso delle missioni, elaborata soprattutto in base all’esperienza cinese
All’indomani del primo conflitto mondiale Benedetto XV dimostra grande lungimiranza sulle missioni; supera i condizionamenti della Chiesa nell’era coloniale: il Cristianesimo non deve più essere percepito come religione straniera; imprime nuovo vigore alle missioni. La storia lo conosce soprattutto come il Papa del «massacre inutile, inutile strage», come definisce la Grande Guerra. Ma è giusto ricordarlo «Papa delle missioni»: con lui l’annuncio del Vangelo riprende slancio. Il Papa genovese spinge le Chiese nazionali – che si erano combattute in un asperrimo conflitto – a recuperare una visione universale e ad attuare il comando di Gesù: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura» (Matteo 16,15).
La «Maximum illud» nasce sull’onda di alcune decisioni che rivelano la grande lungimiranza di Benedetto XV. La Congregazione Concistoriale (oggi dei vescovi) autorizza in Italia la «Giornata sulle migrazioni» (1914) e Benedetto istituisce la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato (1915); costituisce la Congregazione dei Seminari e delle Università (1915); considera la stampa cattolica molto importante per formare l’opinione pubblica ai valori cristiani e scalzare la propaganda massonica e socialista; dedica particolare attenzione a «L’Osservatore Romano»; crea la Congregazione per le Chiese orientali (1917). In seguito alla guerra, cresce il rischio dei missionari di essere espulsi a casa del nazionalismo dilagante; le pulsioni anticolonialistiche, specie in Oriente, vedono le missioni asservite agli interessi delle potenze occidentali e dunque una presenza da sradicare, per esempio in Cina. Il Papa è preoccupato e consapevole e dice ai missionari: «Ricordatevi che voi non dovete propagare il regno degli uomini ma quello di Cristo; e non aggiungere cittadini alla patria terrena, ma a quella celeste».
Come dice Papa Francesco nel 2017 la lettera apostolica di Benedetto «ha uno spirito profetico e una franchezza evangelica». All’inizio del documento elenca alcuni grandi apostoli che hanno portato il Vangelo nei continenti e non nasconde la sua sorpresa nel constatare che «nonostante tante illustri imprese» il numero dei non battezzati sia molto più elevato dei battezzati. Il documento si articola in tre parti. 1) Si rivolge a chi ha la responsabilità principale dell’annuncio – vescovi, vicari apostolici, superiori religiosi – e li sprona «a uno zelo esemplare» perché tutti percepiscano una vicinanza «piena di premura e carità». Stigmatizza il comportamento di chi considera la missione come una proprietà privata, «geloso che altre mani gliela tocchino». 2) Ricorda che il missionario deve avere a cuore principalmente «il bene spirituale» delle persone cui annuncia Cristo poiché le popolazioni che non conoscono il Vangelo sono capaci di cogliere «al fiuto» la presenza di interessi diversi da quello apostolico. 3) Chiede ai fedeli il sostegno della preghiera. Tutta la lettera è riassunta dalla frase: «La Chiesa di Dio è universale, e quindi per nulla straniera presso nessun popolo».
Esorta i missionari a favorire la formazione del clero indigeno e a perseguire il benessere dei popoli e non gli interessi dei Paesi d’origine. Il conflitto mondiale ha cacciato molti evangelizzatori e molti benefattori europei hanno abbandonato le missioni: la necessità di avere cappellani militari e la morte di numerosi sacerdoti assottiglia i ranghi degli apostoli. I governi belga, britannico e francese, mettendo le mani sulle ex colonie tedesche, cacciano i missionari per allontanare l’influenza germanica. Il colonialismo europeo aveva sostenuto l’attività missionaria, non perché gli interessasse la diffusione del Vangelo, ma perché era affamato di nuove terre da depredare: le potenze coloniali favoriscono i missionari in quanto sostenitori dei singoli Paesi. Per i medesimi motivi la laicissima Francia non persegue oltremare la politica anticlericale che furoreggia nella madrepatria e frappone tanti ostacoli alle relazioni diplomatiche tra la Cina e la Santa Sede perché teme che il Vaticano riduca l’influenza di Parigi che ha il «protettorato» sulle missioni. Con acume afferma: «L’opera del missionario diverrà sospetta alla popolazione la quale sarà indotta a credere che la religione cristiana non sia altro che la religione di una data Nazione abbracciando la quale uno viene a mettersi alla dipendenza di uno Stato esterno, e invece è inviato da Cristo e non dalla sua Patria».
Chiama gli istituti missionari a cooperare nella formazione di sacerdoti e vescovi in modo che un giorno assumano il governo delle diocesi: «La Chiesa potrà dirsi ben fondata e l’opera del missionario compiuta dove esisterà una quantità sufficiente di clero indigeno, ben istruito e degno della sua eccelsa vocazione». Benedetto XV e il cardinale olandese Willem Marinus Van Rossum, vigoroso prefetto di Propaganda Fide, inviano in Cina l’ex cappellano militare friulano Celso Costantini come delegato apostolico con il compito di porre le fondamenta dell’episcopato locale. La resistenza dei missionari bianchi è forte: nel 1924 Pio XI, non tollerando ulteriori ritardi, consacrerà in San Pietro sei vescovi cinesi. Benedetto XV riorganizza gli studi a Propaganda Fide per fornire una migliore formazione ai missionari, soprattutto nelle lingue; nel 1919 fonda il Collegio Etiopico per la formazione di sacerdoti; incoraggia la diffusione di associazioni a sostegno delle missioni. Dal 18 gennaio 1921un altro ex cappellano militare, il bergamasco Angelo Giuseppe Roncalli, è presidente del Consiglio centrale delle Pontifici e Opere (Propagazione della fede, Santa Infanzia, San Pietro per il clero indigeno) dell’Italia.