Cento anni della nascita di Ferruccio Borio, «maestro di cronaca»

21 giugno 1922 – Si celebra il centenario della nascita di Ferruccio Borio. Il ricordo di Pier Giuseppe Accornero: “io che lo guardavo da lontano come ‘il principe e il maestro della cronaca’, lo conobbi negli anni Settanta quando don Franco Peradotto mi mandò da lui con un comunicato stampa” …

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«Noi torinesi vecchi e nuovi, noi amiamo questa nostra matta città. Siamo una città chiusa, avara e calvinista, grigia, sospettosa, piena di paure. Deploriamo il suo traffico caotico, le sue grandi fabbriche che livellano, snervano e ci sfruttano come robot, i suoi viali coperti di auto, i suoi corsi e le sue vie impraticabili, le sue case tutte eguali, vecchie e buie. Deploriamo i tram, i servizi pubblici, commerciali e sanitari, il municipio, il sindaco (chiunque sia); la pulizia delle strade, la scadente fornitura dell’acqua, del gas e della luce; deploriamo la Fiat, gli uffici statali, le poste, i telefoni, le ferrovie, persino il tempo e il cielo».

«Ma guai a chi ci parla male di questa nostra città. Come osa? Non ci provochi. Perché allora Torino diventa improvvisamente bella, forte, ricca, prodiga, sana e sicura, la città dove si vive, si guadagna e ci si diverte. Non ci interessa che sia stata la città di Gramsci e di Gobetti e ora sia vittima dei delinquenti e dei terroristi. Sappiamo che è la capitale subalpina: ha fatto l’Italia e potrebbe disfarla. Ma tutte queste cose non ci interessano. C’è una verità sola: Torino è nostra, di noi tutti veri torinesi vecchi e nuovi, nati o importati. Per noi Torino e la più simpatica e più gradevole città del mondo, la migliore. Noi soli possiamo dire che non è vivibile. Ma gli estranei devono dirci: è bella».

Così Ferruccio Borio nell’introduzione al libro «I sindaci della libertà. Torino dal 1945 a oggi». Di lui il 21 giugno si celebra il centenario della nascita. Io, che lo guardavo da lontano come «il principe e il maestro della cronaca», lo conobbi negli anni Settanta quando don Franco Peradotto mi mandò da lui con un comunicato stampa. Era mezzogiorno e lo trovai in cronaca con un collaboratore – credo fosse un vicecapocronista – di fronte a un foglio enorme fissato con le puntine: «Il grande problema del capocronista è fare i turni e riempire i buchi dei cronisti…un lavoraccio».

I manganellatori in camicia nera non risparmiano le opere cattoliche. La famiglia risiede nella «casa delle colonne» in corso Oporto (ora Matteotti), angolo via Parini: «La propaganda si infiammava nei soprusi e nelle bravate dei fascisti. Un mattino vidi sull’angolo della casa di fianco un commesso che raccoglieva i cocci. Le serrande della Libreria Cattolica erano abbassate, le insegne di cristallo nero erano sfondate. La gente passava senza vedere, nessuno si fermava. Mio padre mi tirò via e mi mandò a giocare da un’altra parte. Mi spiegò che nella notte i fascisti avevano rotto le vetrine. Io pensai a una rissa tra combriccole di monelli e giovinastri di quartieri rivali. Quella notte avevano fatto le cose in grande. Nessun commento in casa o fuori. Allora c’era solo la verità fascista». Renato Rizzo lo ricorda a «La Stampa» il 28 aprile 1945 con «il mitra in pugno» dopo aver partecipato alla Resistenza.

Tempi durissimi. Il senatore Giovanni Agnelli, anche grazie a una lettera di Maurilio Fossati, cardinale arcivescovo di Torino, al sostituto della Segreteria di Stato, mons. Giovanni Battista Montini, è assolto dalle collusioni con i nazifascisti. Torna ma il 16 dicembre 1945 a 79 anni muore. Ferruccio Borio, su «La Stampa», rammenta il funerale in una piovosa giornata buia nella palazzina di via Giacosa. «Valletta continuò da solo, più forte e determinato, con il carisma del senatore. Ci sono foto di Valletta in orbace, cinturone e fez sormontato dall’aquila arcigna, tra gli operai in camicia nera, o sulla tribuna di Mirafiori accanto ai generali di Albert Kesselring; Valletta con Ferruccio Parri e Franco Antonicelli e gli uomini del Cln dopo la Liberazione; Valletta, cappello floscio, con l’imperterrito, smagliante sorriso tra gli operai in tuta che lo applaudono, accanto al comunista Battista Santhià. Non abbandonò mai il suo posto, neanche quando venne epurato. Aveva in pugno l’azienda, dettava legge a Torino, trattava in posizione di forza con il governo, era riverito e temuto all’estero. Aveva il potere finanziario, un’immensa capacità di lavoro, una perfetta organizzazione. La sua parola era verbo. Forse soltanto il direttore de “La Stampa” poteva permettersi di contrapporgli qualche osservazione e spuntarla. Giulio De Benedetti era uomo di Valletta ma non gli fu mai servo, complimentoso e untuoso. I due si stimavano e si adattarono al fascismo; sapevano quel che volevano; erano uniti da un comune sentimento anticomunista; si rispettavano. De Benedetti, con un’astuta conduzione del giornale, gli rese servigi grandissimi. La sua abilità era mascherarsi».

«La feroce, la busiarda, cit e gram; la feroce, la bugiarda, piccolo e cattivo». Così gli operai della città-fabbrica chiamano la Fiat, il suo giornale «La Stampa», il presidente Vittorio Valletta, figlio di immigrati, al timone dal 1921, prima in tandem con Agnelli e poi da solo. Per realizzare i grandiosi obiettivi «in terra, mare, cielo» instaura un clima da caserma, con reparti punitivi e con capi e capetti che rendono la catena di montaggio più grama che mai. De Benedetti e Borio sono i protagonisti del miracolo-«La Stampa». Borio traccia un ritratto indimenticabile di Valletta: «Uomo di grande coraggio, di eccezionale saldezza di nervi, di indomita sicurezza che la ragione e il diritto stanno dalla sua parte e che con lui devono schierarsi le forze sane del Paese. Ha un carattere forte, volitivo ma non è uno sfruttatore, si ritiene un socialista. Vede nella Fiat una possente macchina del progresso. Buono, gentile, specialmente con la gente modesta». Dal 17 dicembre 1955 «Specchio dei tempi» è la seguitissima rubrica inventata da de Benedetti e curata da Borio. In sessant’anni (1955-2015) riceve due milioni di lettere, ne pubblica 110 mila. Le prime due sono di un pensionato oppresso dal carovita e di un operaio strangolato dalle tasse.

Arrivano le terribili battaglie di Piazza Statuto e dell’«autunno caldo» – Alle pietre contro i vetri delle finestre del giornale, allora in via Roma, rispondono i «caroselli» della polizia. Testimonia Borio: «I dimostranti lanciano cubetti di porfido e fitte sassaiole. All’improvviso giungono molti giovanissimi e arrabbiatissimi dimostranti, centinaia e centinaia di giovani, quasi nessuno della Fiat. Comincia la battaglia. I ragazzi sono armati di tubi di ferro e di catene avvolte alla cintola. Per occultarsi, mandano in frantumi i lampioni con le biglie sparate dalle fionde. Arrivano altri scamiciati, portati con i camion chi sa da dove. Diventano migliaia, controllati da 500 agenti. Gli scontri durano tutta la notte». La «feroce» pretende che la «busiarda» ignori le disgrazie sul lavoro: il padre di famiglia finito nell’altoforno o il giovane immigrato schiacciato dalla pressa muoiono sempre sull’ambulanza che li porta in ospedale. Conferma Diego Novelli, eccellente capocronista de «l’Unità»: «Anche gli infortuni più agghiaccianti – ricordo un giovane caduto in una vasca di acido bollente – avevano conseguenze letali sempre fuori dalla fabbrica, “mentre il poveretto veniva trasportato all’ospedale” scriveva “La Stampa”, con la copertura della polizia giudiziaria e della magistratura».

Il 3 luglio 1969 sciopero generale sul dramma-casa e per il blocco degli affitti: tumulti e scontri violentissimi davanti a Mirafiori in corso Traiano; guerriglia urbana con la polizia fino alle 3 di notte: 200 feriti e 180 arrestati o fermati. In autunno le lotte monopolizzano l’opinione pubblica. la Fiat risponde agli scioperi con denunce, sospensioni, licenziamenti; il 3 dicembre neppure un’auto esce dagli stabilimenti; il 21 Agnelli e gli industriali firmano malvolentieri l’accordo proposto da Carlo Donat-Cattin, «ministro dei lavoratori», e devono «ingoiare»: riduzione dell’orario a 40 ore settimanali, aumento salariale uguale per tutti, diritto di assemblea. Molto puntuali le informazioni di Borio: «I tafferugli scoppiano dentro la Fiat: sabotaggi alle linee di montaggio, incendi dolosi nel reparto verniciatura, cortei che sbeffeggiano capi e capetti, invadono gli uffici, sfasciano mobili, sequestrano i dirigenti, malmenano gli impiegati, spogliano rudemente le impiegate. Sono 200-300 ma fanno danni come duemila, bloccano la produzione, guastano gli impianti. Il tutto sotto gli occhi delle vituperate guardie, un esercito privato, una volta onnipotente, poi ridotto a maschere da Carnevale. Per la Fiat nel recinto degli stabilimenti esiste solo la polizia dell’azienda, l’altra è bene che rimanga fuori». Borio, «maestro della cronaca» racconta queste battaglie. Nel 1978 lascia Torino per dirigere «Il Piccolo» di Trieste e «Il lavoro» di Genova. Torna nel tentativo di rianimare «La Gazzetta del Popolo» ma il giornale chiude ugualmente. Colpito da ictus, si spegne il 12 novembre 2009.

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