Cento anni fa i fascisti instaurano il loro potere a base di violenze, pestaggi e tanto olio di ricino agli avversari socialisti, che avevano sulla coscienza il famigerato e violentissimo «biennio rosso».
Nella notte tra il 25 e il 26 aprile 1921 i fascisti devastano la Camera del lavoro di Torino. La sera del 25 l’operaio fascista Cesare Oddone affronta per strada, con due camerati, l’operaio comunista Galbiati: temendo di essere aggredito, questi spara un colpo di pistola e uccide Oddone. Per rappresaglia i fascisti torinesi assaltano e incendiano la Camera del lavoro. Alle 4,30 del 26 aprile 200 squadristi, agli ordini di Pietro Brandimarte, incendiano il teatro dell’Alleanza cooperativa in corso Galileo Ferraris. A una prima autopompa dei vigili del fuoco è impedito di intervenire: è fatta oggetto di colpi d’arma da fuoco dei fascisti, nella totale indifferenza della Guardia Regia che si limita a guardare. Solo una seconda autopompa, giunta un’ora più tardi, poté contenere gli effetti dell’incendio. Gli squadristi penetrano nell’edificio, feriscono gravemente il custode, devastarono i locali. Lo stabile di corso Galileo Ferraris è occupato anche dalla Guardia Regia che gli operai accusano di svuotare le cantine completando la devastazione.
Le forze dell’ordine tornano nella notte tra il 25 e il 26 e arrestano numerosi operai in servizio d’ordine a difesa del palazzo, ma nessun arresto tra i fascisti, anche se il prefetto assicura che sono in corso due inchieste, una militare e una amministrativa, ma dell’esito non si ha notizia. Formato il governo Mussolini, il 1° novembre 1922 il palazzo viene d nuovo preso di mira dai fascisti.
Ben più grave è la strage fascista di Torino del 1922 ed è innescata da un rivoluzionario. Nella notte del 17-18 dicembre 1922 in Barriera di Nizza, il tranviere comunista 22enne Francesco Prato cade in un agguato: ferito a una gamba, spara e uccide due fascisti, fugge, espatria, scompare in Urss. Nello scontro cadono Giuseppe Dresda, ferroviere 27enne, e Lucio Bazzani, 22enne studente di Ingegneria. I fascisti schiumano vendetta. Colpiscono quanti non hanno l’abitudine di tacere e agli oppositori fanno ingurgitare fiumi di olio di ricino. Gli squadroni, capeggiati da «La disperata» e da Pietro Brandimarte – ex ufficiale dei Bersaglieri, console della Milizia volontaria di Sicurezza nazionale – la sera del 18 dicembre si scatenano nelle barriere operaie; perquisiscono le abitazioni di comunisti e socialisti; si impossessano di armi e munizioni; devastano e bruciano il Circolo anarchico dei ferrovieri, il Circolo Carlo Marx, la sede de «L’Ordine Nuovo», la Camera del lavoro; bloccano i poliziotti accorsi dalla Questura, segno che il fascismo si sta impadronendo dello Stato. Due giorni di follia omicida: 14 morti – uno si salva fingendosi cadavere – e 26 feriti. Il proletariato è duramente colpito: operai, ferrovieri, tramvieri, accomunati dall’avversione al fascismo. Il segretario della Fiom torinese, legato a un automezzo, è trascinato per corso Vittorio Emanuele. Le «camicie nere» saccheggiano le sedi sindacali; assalgono militanti di sinistra e inermi cittadini; usano pistole, coltelli, pugni e pestaggi. Il «quadrumviro» De Vecchi, nemico della «plutocrazia industriale», non troppo infervorata per il fascismo, accusa Giovanni Agnelli di illecito arricchimento durante la guerra. Il caporione Brandimarte esulta: «I nostri morti non si piangono, si vendicano. Fra 3 mila sovversivi ne abbiamo scelti 24 e abbiamo affidati i nomi alle nostre migliori squadre perché facessero giustizia. Giustizia è stata fatta. I cadaveri mancanti saranno restituiti dal Po o li troveranno nei fossi, nei burroni, nelle macchie». Al termine della guerra, Brandimarte sarà arrestato mentre tenta di fuggire in Francia: processato, grazie alle complicità e alle falsità dei testimoni, è assolto. Mussolini telefona al prefetto: «Come capo del fascismo mi dolgo che non ne abbiano ammazzati di più; come capo del governo devo ordinare il rilascio dei comunisti».
Le vittime della strage fascista sono: Erminio Andreone, fuochista delle Ferrovie; Evasio Becchio, operaio comunista, prelevato dall’osteria e ucciso a colpi di pistola e moschetto; Carlo Berruti, ferroviere e consigliere comunale del Partito comunista d’Italia, freddato a Nichelino; Matteo Chiolero, tramviere e militante socialista; Pietro Ferrero, anarchico e sindacalista: trascinato legato per i piedi a un autocarro, ridotto in poltiglia, il capo fracassato; Andrea Ghiomo, manovale antifascista, muore per le centinaia di ferite; Giovanni Massaro, ex ferroviere e anarchico, ucciso a colpi di moschetto; Leone Mazzola, militante socialista, ucciso nel retrobottega della sua osteria; Cesare Pochettino, artigiano non impegnato in politica: prelevato con il cognato Stefano Zurletti, portati in collina e fucilati, Pochettino muore, Zurletti si finge morto, in ospedale subisce angherie, insulti e minacce dagli squadristi ma sopravvive; Angelo Quintagliè, usciere delle Ferrovie; Matteo Tarizzo, meccanico, ucciso con una clava.
Le violenze del dicembre 1922, denunciate dalla stampa, divengono un caso nazionale. Mussolini scioglie il Fascio torinese, allontana De Vecchi, promuove nuovi dirigenti. Il rapporto del regime con Torino è molto anomalo perché gli industriali – con alla testa Giovanni Agnelli – scavalcano gli «sgherri» locali e stabiliscono un canale privilegiato con il duce. La concentrazione in città di una classe operaia, che ha dato prova di eccellente mobilitazione, determina la convergenza di interessi tra i capitani di industria e il dittatore: l’alleanza garantisce agli imprenditori profitti e indipendenza.
Il palazzo di corso Galileo Ferraris diventa sede, dal settembre 1929, della Casa dei sindacati fascisti. Davanti all’edificio, simbolo dell’emancipazione dei lavoratori, il 26 luglio 1943 si radunano migliaia di persone per salutare e festeggiare la caduta di Mussolini. Il palazzo torna sede della Camera del lavoro e del sindacato unitario e dal 1948, della sola Cgil, fino a quando è demolito negli anni Sessanta.