«Voglio partire in perfetto orario. D’ora in poi camminare alla perfezione» ordina Benito Mussolini la sera del 28 ottobre 1922, cent’anni fa, alla stazione centrale di Milano salendo sulla carrozza-letto con un fascio di fiori tra le braccia, dono di un’ammiratrice. Alle 10,50 del 29 il direttissimo arriva alla stazione Termini di Roma, con un’ora e più di ritardo, non per colpa delle Ferrovie ma dei fascisti, accorsi in massa nelle stazioni, che costringono il convoglio a fermarsi. Gli squadristi si accampano in attesa del segnale. La «Marcia su Roma» si compie con l’assenso del re e con la condiscendenza di Esercito e Polizia e precipita l’Italia in un’avvilente tirannia.
Il vincitore va al Quirinale senza cambiarsi la camicia nera. Il colloquio con il re dura un’ora: «Porto a Vostra Maestà l’Italia di Vittorio Veneto. Chiedo perdono se mi presento in camicia nera, reduce dalla battaglia, fortunatamente incruenta, che si è dovuta impegnare». Il 30 ottobre Mussolini dà ai suoi 26 mila squadristi accampati sotto la pioggia – ingrossati fino a 70 mila – il permesso di entrare in Roma, alla conquista delle trattorie e alla ricerca di violenza, come a San Lorenzo con una dozzina di morti. Sfilano davanti a un Vittorio Emanuele III corrucciatissimo. «Un corteo più folcloristico che militare – rammentano gli storici -, più arrogante che solenne, più sprezzante che ordinato», un’«armata Brancaleone», una tragicomica operetta. Nel gustoso libro «In Italia ai tempi di Mussolini. Viaggio in compagnia di osservatori stranieri» Emilio Gentile racconta che il diplomatico francese François Charles-Roux nota che i fascisti hanno «più l’aspetto di bande irregolari che di forze organizzate»; il giornalista francese Maurice Pernot: «I romani non mostrano grande entusiasmo e fanno buon viso agli ospiti. Mai colpo di Stato è stato compiuto con meno vittime». Nel primo discorso da presidente del Consiglio, il 16 novembre 1922, insulta il Parlamento «aula sorda e grigia da trasformare in un bivacco di manipoli».
Al Quirinale dall’11 agosto 1900 siede un sovrano imbelle. «Re soldato» nella Grande Guerra, «re sciaboletta» ha l’imperdonabile colpa di non essersi opposto alla dittatura, alle leggi razziali, al connubio tra Mussolini e Hitler, tra fascismo e nazismo, fino al secondo conflitto mondiale. «Popolo italiano, corri alle armi» proclama il duce il 10 giugno 1940. Il sovrano rifiuta di firmare lo stato d’assedio ma cede alle pressioni, congeda il governo di Luigi Facta, incarica Mussolini di formare l’esecutivo. Il comodo ma poco solenne viaggio in vagone letto inaugura la «marcia su Roma». Confortato dall’adesione delle forze industriali ed economiche e dal plauso dell’opinione pubblica, si avvale dei «quadrunviri»: l’emiliano-romagnolo Italo Balbo, il calabrese Michele Bianchi, il lombardo Emilio De Bono, il piemontese di Casale Monferrato Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon.
L’impresa di Fiume fu la prova generale della «marcia su Roma»: un migliaio di volontari e reduci, sobillati da Gabriele D’Annunzio, occuparono Fiume, contesa tra Regno d’Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni: con la Dalmazia sarà attribuita alla Jugoslavia. L’occupazione inizia il 12 settembre 1919, dura 16 mesi fino al 27 dicembre 1920. Due anni dopo, un secolo fa, le «camicie nere» – poi inquadrate nella Milizia volontaria per la Sicurezza nazionale – occupano prefetture e stazioni; uffici pubblici, postali e radio-telegrafici; strade e ferrovie. Autocarri e camionette, motorette e biciclette trasportano a Roma migliaia di invasati che sfoderano manganelli e gagliardetti, pugnali e scudisci, fucili da caccia, drappi neri e labari, teschi e tibie, fez e pantaloni alla zuava e la «cimice» all’occhiello della giacca, al grido del dannunziano «Alalà», al canto di «Giovinezza, giovinezza», salutano romanamente con il braccio destro alzato. Il dèspota introduce l’«E. F., era fascista» con l’obbligo di aggiungerla, in numero romano, all’era volgare: in vigore dal 29 ottobre 1927, dura fino al 25 luglio 1943 quando il regime cade.
Il dittatore chiude partiti e giornali; come nella lugubre Unione Sovietica, impone i capicaseggiato che controllano i vicini; si fa confezionare da Giacomo Acerbo una legge elettorale su misura che elimina l’opposizione e l’ultima parvenza di democrazia; cancella le elezioni e introduce il plebiscito nei quali «il popolo voterà perfettamente libero» nel 1929 e nel 1934 su una lista unica di 400 nomi con due schede: tricolori per il «sì» – nel 1934 il 99,84 per cento – e bianche per il «no». Il regime scatena spedizioni punitive e devasta cooperative e circoli cattolici; sopprime le libertà; mette fuori legge i partiti e ne arresta i capi come i comunisti Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci; vara «leggi fascistissime»; trasforma il Gran Consiglio in un organo dello Stato; minaccia don Luigi Sturzo, fondatore nel 1919 del Partito popolare, «torbido e imbelle prete siciliano». Liquida gli oppositori: il 23 agosto 1923 don Giovanni Minzoni, parroco di Argenta, provincia di Ferrara e diocesi di Ravenna, è colpito alle spalle e ucciso a bastonate: gli squadristi di Italo Balbo non gli perdonano il fiero antifascismo. Il cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri reagisce: «Come fosse stato ucciso un cane randagio» e invita vescovi e parroci a «tenersi del tutto alieni dalla lotta dei partiti». Gli italiani «sono presi per incantamento», scrivono i giornali. Per Pier Giorgio Frassati è una «tragica ora».
La stampa internazionale, disattenta e scettica, muta atteggiamento. In Francia il più deciso sostenitore è il monarchico «Le Gaulois». In Inghilterra i liberali «Manchester Guardian» e «Daily News» evidenziano che il fascismo è una rivolta contro la Costituzione (in realtà nel 1848-1947 è in vigore lo Statuto albertino); per il conservatore «Times» è «una salutare reazione contro il bolscevismo»; Percival Phillips sul «Daily Mail» parla di despota «che nel confuso clima dell’Italia impone la tirannide». Negli Stati Uniti il «New York Times» annuncia «violenza in Italia e terrorismo politico» ma tre giorni dopo nell’editoriale «I fascisti al potere» narra di colpo di Stato «singolare e innocuo». Il «New York Tribune» lo paragona al «Ku Klux Klan d’Italia» – la famigerata associazione segreta razzista nata dalla guerra civile – ma poi difende la marcia su Roma di «Garibaldi in camicia nera».
Torino fascista parte al rallentatore: il tipografo ex anarchico Mario Gioda fonda il primo Fascio torinese nella primavera 1919, una decina di aderenti distribuiscono materiale antisocialista. La visibilità cresce nel 1921 con De Vecchi di Val Cismon del ricco ceto agrario e filo-monarchico con solidi legami nell’aristocrazia. Alla vigilia della «marcia» gli iscritti sono 500 su mezzo milione di abitanti: dipendenti pubblici, bassi gradi Fiat, immigrati dal Sud. Poi l’impennata: da 581 iscritti a 4.312.
Mussolini celebrerà a Torino il decennale della «Marcia su Roma». Il 23 ottobre 1932 entra fra le mura della Piccola Casa della Divina Provvidenza. Fra quanti fanno ala scorge un volto noto, un sacerdote che, come soldato di Sanità, gli aveva prestato assistenza nel 1917 quando era rimasto ferito in guerra. La Fiat, per ingraziarsi il regime, lancia l’«Ardita», la «508 Balilla» e la «500 Topolino». Con una produzione di 35 mila auto all’anno diventa la maggiore industria nazionale. Conquistato il mercato italiano, va all’assalto dei mercati esteri.
Pier Giuseppe Accornero