Dopo la Grande guerra (1915-18) l’Italia, formalmente vittoriosa, deve affrontare i medesimi travagli degli sconfitti. Chi è restato a casa ha affrontato quattro anni d’inferno. Le sofferenze al fronte sono state spropositate e i soldati tornano furibondi nell’anima e piagati nel corpo. A lavorare la terra ci hanno pensato le donne. Milioni di poveracci devono fare i conti con una miseria nera e scoprono che i profittatori si sono arricchiti, rubando sulle forniture militari e speculando sulle loro sofferenze. Gli smobilitati non trovano né casa né lavoro né una vita degna e gli operai non trovano più il posto di lavoro perché, terminate le succulenti commesse di guerra, la produzione va riconvertita in opere di pace; la lira che non vale più niente. Il malumore degenera in saccheggi, scioperi, disordini, violenze, occupazioni delle fabbriche, morti e feriti. Dilagano rancore, insoddisfazione, insofferenza, ribellioni.
Il 1919-1920 è il «biennio rosso», specie nel triangolo industriale. A Torino gli operai sono 200 mila su 500 mila abitanti; il Partito Socialista ha il 54 per cento dei voti, 22 punti in più della media nazionale; la Rivoluzione sovietica galvanizza socialisti, sindacalisti, anarchici. Il «biennio rosso» (1919-1920) è funestato da violenze inaudite, soprattutto nel capoluogo subalpino che tra le due guerre mondiali accentua il carattere industriale. Le aziende, nel tentativo di adattarsi al mercato di pace, ricorrono a massicci licenziamenti: la Fiat licenzia 8 mila dipendenti con disastrose ripercussioni sull’indotto. Torino è l’epicentro delle inquietudini popolari e delle agitazioni rivoluzionarie che scuotono la Penisola; è protagonista delle sommosse ed è marginale nell’ascesa del fascismo. Per Antonio Gramsci «rappresenta in piccolo un vero e proprio organismo statale. Tutte le energie vi sono rappresentate, tutte le forze antitetiche di uno Stato vi operano, il posto ideale per la rivoluzione». Il primo Consiglio di fabbrica per la gestione operaia sorge alla Fiat: cacciata la commissione interna, gli operai eleggono un «commissario» per ogni reparto e chiedono di ritardare di un’ora il lavoro: è lo «sciopero delle lancette».
Il 29 gennaio 1920 sciopero generale e a Torino: 120 mila operai marciano «come una valanga a spazzare dalle strade e dalle piazze il canagliume nazionalista e militarista». Il governo fa affluire 50 mila militari e lo «sciopero delle lancette» lascia gli operai con l’amaro in bocca e con una forte voglia di rivincita. La scintilla della protesta si riaccende a Milano nell’agosto 1920. Alla risposta negativa degli industriali, i sindacati rispondono con l’occupazione della quasi totalità delle fabbriche metalmeccaniche italiane. A Torino gli operai cominciano a produrre per proprio conto e a difendere gli stabilimenti con le armi. Comanda l’ala più radicale e massimalista, organizzata e disciplinata e le «Guardie Rosse» sorvegliano, con il pugno di ferro, dentro e fuori le officine occupate dopo la cacciata dei padroni. Ma i metalmeccanici sono isolati e la rivoluzione non ha alcuna possibilità di successo nonostante gli infuocati proclami di «Avanti!»: «Proletari d’Italia, organizzatevi, disciplinatevi, armatevi». Le violenze divampano: un operaio è ucciso da un passante che lo scambia per un rapinatore; una «guardia rossa» cade in uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine; i conflitti nelle strade provocano 15 morti, tra cui 5 poliziotti. Il giorno peggiore è il 22 settembre 1920: la forza pubblica occupa i punti strategici con mitragliatrici, cannoni, autocarri, autoblindo, veicoli «scudati». Le «Guardie Rosse» uccidono con un colpo di rivoltella alla testa due operai sottoposti a «processo proletario», condannati e giustiziati. La Fiat è occupata per 30 giorni e Agnelli affida la contabilità dell’azienda a Vittorio Valletta.
«La teppa rossa scatenata contro le bandiere della Patria» – Indignazione trasuda da don Silvio Solero, valente cappellano militare nella Grande guerra, il più noto tra i torinesi: «La teppa rossa è scatenata contro le bandiere della Patria, i segni del valore e le ferite dei mutilati. Una follia collettiva pare invasare le folle, aizzate da mestatori settari e demagoghi sovversivi. Nelle settimane rosse si succedono comizi su comizi; molte fabbriche sono invase; sale la protesta proletaria, abilmente manovrata. Dal Duomo sentivo il crepitìo delle mitragliatrici in corso Regina Margherita; ho assistito a una carica di Cavalleria in via Garibaldi; i dimostranti con le pietre colpiscono i poveri soldati. I comunisti fanno correre la voce che nei sotterranei del Duomo sono nascoste armi e munizioni per poi incitare ad assaltare il tempio perché il popolo crede sempre tutto: quanto più le novità sono stravaganti e assurde tanto più le beve e le propaga ai quattro venti. Un momento di follia collettiva, di istupidimento generale, causato dalle inique speculazioni dei capoccia sovversivi, senza religione e senza Patria».
Indignazione anche da due altri preti torinesi. Don Adolfo Barberis, segretario del cardinale arcivescovo Agostino Richelmy, dirige «La Buona Settimana» che si occupa della guerra, dei cappellani militari, dei sacerdoti-soldati, di fatti politici e sociali; esorta a un fattivo amore di Patria, come la sottoscrizione del «prestito per lo Stato». Compaiono articoli molto critici sul bolscevismo, sull’Unione Sovietica, sulla furia rivoluzionaria. Anche don Attilio Vaudagnotti scrive un articolo molto ruvido: «Fu uno spettacolo angoscioso per ogni cuore cristiano quella marea rossa che il 1° maggio dilagò. Ma l’episodio più triste è stato dato da quegli operai, quelle donne e ragazze che, portando una bandiera nera o rossa, si fermavano per capovolgerla innanzi alle chiese, con grida di spregio, “abbasso” e “distruzione”». Papa Benedetto XV è preoccupato perché la rivoluzione minaccia la famiglia e fomenta l’odio: «Il flagello della guerra si abbatté sulle umane genti, già infette di naturalismo, gran peste del secolo che attenua il desiderio dei beni celesti, spegne la fiamma della carità, sottrae l’uomo alla grazia, gli toglie il lume della fede, lo abbandona in balìa delle più sfrenate passioni. Moltissimi si diedero alla conquista dei beni terreni. Mentre già si era acuita la contesa tra proletari e padroni, l’odio di classe si accrebbe con la guerra: cagionò alle masse un disagio economico intollerabile e fece affluire favolose fortune nella mano di pochissimi».