Il 17 marzo 2021 ricorre il centosessantesimo anniversario dell’unità nazionale, infatti la proclamazione del Regno d’Italia avvenne nello stesso giorno del 1861. Il luogo solenne dell’avvenimento fu la sede del primo parlamento italiano, Palazzo Carignano a Torino, la capitale, edificio che ora ospita il Museo Nazionale del Risorgimento Italiano e una prestigiosa biblioteca. A dire il vero l’Italia non era ancora una nazione completa, mancavano Roma e buona parte del nord-est, ma comunque la gran parte del territorio era stata unificata.
Nelle ricorrenze “tonde” l’evento è stato ampiamente ricordato, soprattutto nelle tre capitali, Torino, a cui seguirono prima Firenze e poi Roma. Per quanto riguarda la città subalpina, nel cinquantesimo, nel 1911, si svolse, al Valentino, sulle rive del Po, una grande esposizione internazionale, con la costruzione di ponti ed edifici monumentali, quasi totalmente poi abbattuti.
Il centenario del 1961 vide, a Torino, l’avvenirista realizzazione di Italia’61, con i grandi palazzi, la monorotaia, la funivia,… un’ubriacatura di interventi edilizi figlia del boom economico che, a spettacolo finito, non furono poi bene utilizzati (e Palazzo Nervi è ancora lì a testimoniarlo).
Più sobrio fu il centocinquantesimo, nel 2011, con il recupero delle OGR e tre grandi mostre, svoltesi tra il capoluogo e la Reggia di Venaria, che si stimano siano state visitate da almeno due milioni di persone.
Il senso di questa ricorrenza e, in generale, la percezione del tricolore, dell’idea di patria e del Risorgimento, hanno avuto sorti alterne nella cultura e nell’opinione pubblica: ci fu inizialmente la celebrazione post-risorgimentale (un po’meno sentita al sud); seguì poi la variante ipernazionalista, provocatoriamente e nocivamente esaltativa del fascismo e, infine, il progressivo e controverso oblio del secondo dopo guerra. Ci volle un presidente come Ciampi (che non a caso si chiamava anche Azeglio, in omaggio a Massimo d’Azeglio, uno dei più dimenticati protagonisti del processo unitario) per recuperarne un significato più vero.
Nella storia piemontese il mese di marzo ha visto ricorrenze importanti: il 4 marzo 1848 venne promulgata la costituzione, lo Statuto Albertino, che, di fatto, governerà anche l’Italia unificata per cento anni; ma soprattutto fu nel marzo 1821, esattamente duecento anni fa, che si svolsero, a Torino e nelle principali città piemontesi, i Moti liberali che avrebbero potuto anticipare il Risorgimento. Furono preceduti dall’insurrezione degli universitari torinesi del gennaio dello stesso anno (sanguinosamente repressi), e a marzo ci fu quella di molti giovani aristocratici, borghesi e militari (poco popolo, però). Gli eventi che si susseguirono furono caotici ed imprevisti. Il re Vittorio Emanuele I, spaventato dalla situazione instabile, abdicò; il reggente Carlo Alberto concesse la Costituzione; il nuovo re, Carlo Felice, la abrogò e gli insorti furono sconfitti a Novara, nei primi giorni di aprile. Si aprì poi una dura repressione, che meritò al re di essere nuovamente chiamato Carlo “Feroce”, appellativo che si era guadagnato nella tentata repressione del banditismo sardo.
I principali protagonisti dei Moti, tra i quali Santorre di Santa Rosa, che ne era sostanzialmente il capo, furono costretti all’esilio e condannati a morte in contumacia. La ferita si sanò solo con l’amnistia del 1842, concessa da Carlo Alberto, ormai divenuto re, in occasione delle nozze del figlio primogenito, il futuro Vittorio Emanuele II. Del perdono reale però non ne beneficiò Santa Rosa, che aveva ormai trovato la morte nel 1825, combattendo a Sfacteria per l’indipendenza della Grecia dall’Impero Ottomano.
Furono errori gravissimi quelli che duecento anni fa commisero le per nulla lungimiranti autorità sabaude: soprattutto ci fu l’ottusità di non comprendere le istanze innovative di quei patrioti, che volevano rimanere fedeli sudditi dei Savoia, però in una nazione modernizzata (come è chiaramente testimoniato nel loro programma, il cosiddetto Proclama di Carmagnola, del 10 marzo 1821). Infatti con la condanna all’esilio della maggior parte di loro, privarono lo stato piemontese di buona parte della sua migliore classe dirigente, rallentando di oltre un decennio lo sviluppo del Piemonte (e dell’Italia) e il processo risorgimentale.