A Praga un edificio sacro in stile barocco è stato venduto ed è diventato un locale notturno. Chiese dismesse sono diventate discoteche, rimesse, gelaterie, moschee, negozi, bar, ristoranti, palestre, centri estetici, abitazioni, locali commerciali. Accade in Belgio, Olanda, Francia, Svizzera, Germania, Stati Uniti, Canada, Australia, Italia. Il fenomeno è in espansione negli ultimi decenni ed è trasversale alle Chiese: cattolica, luterana, anglicana, protestante, ortodossa.
Nell’«Anno europeo del patrimonio culturale» il 29-30 novembre 2018 si terrà alla Pontificia Università Gregoriana di Roma il convegno internazionale «Dio non abita più qui? Dismissione di luoghi di culto e gestione integrata dei beni culturali ecclesiastici» organizzato da Pontificio Consiglio della cultura, Conferenza episcopale italiana e Gregoriana. Parteciperanno i delegati delle Conferenze episcopali di Europa, America settentrionale e Oceania. Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Consiglio per la cultura, spiega: «Abbiamo registrato un interesse straordinario degli episcopati di diversi Paesi. C’è una trasversalità geografica perché il problema riguarda Paesi molto diversi. E c’è una trasversalità socio-culturale».
La chiusura delle chiese e la dismissione dei luoghi di culto sono uno specchio di molti fenomeni: crisi economica, diminuzione dei fondi pubblici per la gestione del patrimonio, abbandono della pratica religiosa, cavalcata della secolarizzazione, contrazione delle comunità cristiane, scarsità di clero, riduzione delle attività pastorali. Mutamenti radicali che rischiano di cancellare per sempre il senso del sacro insito nella storia e nell’architettura di quegli edifici. In Canada vengono tutelate anche le cappelle più semplici e più isolate. In Francia le chiese sono di proprietà dello Stato perché furono confiscate dalla Rivoluzione e da Napoleone. In Olanda e in Belgio il problema è la nuova destinazione d’uso delle chiese vendute.
E in Italia? Non esistono cifre certe né statistiche puntuali. Una ragione è anche la disparità dei proprietari: diocesi, parrocchie, istituti religiosi, demanio, regioni, comuni, privati. Le chiese nella Penisola sono circa centomila: 65 mila sono proprietà delle parrocchie; alcune migliaia (non sono mai state censite) sono di ordini religiosi e di confraternite; 820 chiese sono proprietà del Fondo edifici di culto (Fec) del ministero degli Interni e alcune molto celebri. A Firenze, Santa Maria Novella, Santa Croce, San Marco. A Roma Santa Maria in Ara Coeli, Santa Maria del Popolo, Santa Maria della Vittoria, Sant’Ignazio, Santa Maria Nova, Santa Francesca Romana, Santa Maria sopra Minerva, San’Andrea della Valle, Santi Giovanni e Paolo al Celio. Edifici che furono espropriati nell’Ottocento dallo Stato italiano, come aveva fatto lo Stato Sabaudo in Piemonte. Cosa fanno i rivoluzionari di tutto il mondo? Anzitutto confiscano le proprietà della Chiesa, per esempio in Russia.
La gestione delle chiese dismesse – in particolare se di valore artistico – è regolata anche dagli accordi concordatari. Tuttavia a favorire la cessione è il valore commerciale dell’edificio per la zona della città in cui si trova, per i risparmi che derivano a parrocchie in non floride condizioni economiche o agli Istituti di sostentamento del clero che si fanno carico di edifici che non producono reddito. Cedendo la chiesa a un privato diventa difficile impedire le trasformazioni, magari in una discoteca o in un centro commerciale. Differente è il comodato d’uso, realizzato d’intesa con un’istituzione pubblica.
Per far fronte alle difficoltà economiche e di gestione, il Fec sperimenta il biglietto d’ingresso di alcune chiese. Mons. Nunzio Galantino, già segretario della Cei e ora presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica (Apsa) esclude che questa possa essere una soluzione: «Per i biglietti d’ingresso alla Cei sono arrivate moltissime proteste, pur in presenza di una diversificazione tra partecipazione liturgica e percorso turistico. È una questione complessa: gli introiti bastano a malapena a coprire le spese delle cooperative». Mons. Valerio Pennasso, direttore dell’Ufficio Cei edilizia di culto, informa che le dismissioni in Italia «sono nell’ordine delle centinaia». Per i vescovi il problema non è solo di natura culturale ma valoriale e pastorale. Molte le richieste e le proposte di valorizzazione di edifici non più utilizzati per la liturgia. I problemi maggiori sorgono quando le chiese non appartengono più alle parrocchie ma vengono cedute ai privati che ne fanno ciò che vogliono».
Da tempo si chiede che le chiese dismesse – non «sconsacrate», parola usata dai media ma che non significa niente – mantengano un’aura di sacralità. Il problema è l’uso che si fa del patrimonio dismesso, il rischio è che la cessione porti a trasformazioni che cancellano il senso originario. Mons. Pennasso illustra: «In molti casi la chiesa, anche se poco frequentata, rappresenta un legame forte con la memoria dei luoghi e con la storia delle comunità. Le trasformazioni commerciali in cui si perde la memoria di tutto questo, spesso suscitano proteste».
I terremoti in Centro Italia negli ultimi anni hanno danneggiato circa tremila luoghi di culto (300 nella sola arcidiocesi di Camerino-San Severino Marche). C’è un grande impegno, anche dello Stato, per restaurare queste chiese storiche perché rappresentano un punto di ritrovo per la gente e il segnale per ricostruire una comunità e non perdere l’identità. Il 9 dicembre 1992 la Cei pubblicò «I beni culturali della Chiesa in Italia», documento composto da un decreto del presidente della Cei card. Camillo Ruini e dagli «Orientamenti» dell’episcopato: suggeriva di destinare le chiese dismesse a fini culturali: biblioteche, archivi, musei.
Nel convegno internazionale saranno presentate linee guida sulla dismissione e il riuso del patrimonio ecclesiastico. Obiettivo del documento non sarà suggerire se o quando dismettere o vendere una chiesa, quanto dimostrare la necessità di una programmazione a lungo termine, d’intesa con le autorità civili.