«Caro conte, devo chiederle un favore. Quando il Papa fa qualcosa lei su “L’Osservatore Romano” scrive: “Sua Santità si è benignamente degnata di…” e quando il Papa dice qualcosa scrive: “Le sue auguste labbra hanno pronunciato…”. Ecco, scriva semplicemente: “Il Papa ha fatto, il Papa ha detto”». Al conte Giuseppe Dalla Torre, leggendario direttore del giornale vaticano per un quarantennio (1920-1960), non rimase che ubbidire a Papa Giovanni.
Cinquantacinque anni fa, il 28 maggio 1963 «L’Osservatore Romano» rende di pubblico dominio la gravità della malattia del Papa, un tumore allo stomaco. Il 31 maggio entra in agonia. Il 3 giugno (era un lunedì) gli sguardi di tutti si volgevano a quella finestra della sua stanza al terzo piano del Palazzo Apostolico. «La mia giornata terrena finisce ma il Cristo vive e la Chiesa ne continua la missione nel tempo e nello spazio». In piazza San Pietro il cardinale Luigi Traglia, pro-vicario di Roma, celebra la «Missa pro Pontifice infirmo». Un minuto dopo l’«Ite, Missa est», alle 19,49 Papa Giovanni spira come un patriarca, amato come un padre.
Il suo non è un papato di transizione ma di storiche novità. Comincia la sera dell’elezione, il 28 ottobre 1958, assumendo il nome di Giovanni, non più in uso da 650 anni; abolisce il bacio della pantofola da parte dei cardinali all’eletto; non attribuisce alcun titolo nobiliare ai fratelli: «Che bisogno avete di diventare conti? Siete già contadini e avete qualche lettera di più dei semplici… conti». Porta il numero dei cardinali a 75 e poi a 90; nomina il primo cardinale africano e il primo giapponese. Fa il primo santo di colore, Martino de Porres, peruviano, figlio illegittimo di un cavaliere spagnolo e di una ex schiava nera.
Introduce innovazioni dettate dalla sua umanità. Da tempo immemorabile vigeva la regola che quando il Papa passeggiava nei giardini era proibito salire sulla cupola di San Pietro: abolisce la restrizione. Nei giardini si ferma a parlare con gli operai delle famiglie e del salario, così scopre che i salari vaticani sono bassi e decide di aumentali e di introdurre gli assegni familiari secondo il numero dei figli. Visita i bambini ricoverati al «Bambin Gesù» e i detenuti di Regina coeli; dalla presa di Roma nel 1870 è il primo Papa che visita il presidente della Repubblica Antonio Segni al Quirinale e da lui riceve il «Premio Balzan per la pace». Istituisce la cineteca vaticana per la raccolta di film da tutto il mondo. Rende stabile l’usanza, iniziata da Pio XII, di affacciarsi alla finestra la domenica a mezzogiorno per recitare l’Angelus.
Fu uomo e papa di dialogo. Riceve per la prima volta l’arcivescovo di Canterbury e primate anglicano e Geoffrey Francis Fisher lo saluta: «Santità, sono quattro secoli che non ci vediamo»; poi vescovi ortodossi e pastori protestanti. Istituisce il Segretariato per i «fratelli separati»; riceve il genero e la figlia di Nikita Kruscev, potente capo dell’Unione Sovietica. Media tra Kennedy e Kruscev per la crisi dei missili a Cuba.
In campo ecclesiale le decisioni più eclatanti. Indice il Concilio Vaticano II e il Sinodo della diocesi di Roma; avvia la riforma del Diritto Canonico e la riforma liturgica: celebra la Messa in rito bizantino, modifica il messale e il breviario, concede di fare la Comunione al pomeriggio fuori della Messa e soprattutto elimina l’aggettivo «perfidi» attribuito agli ebrei nelle preghiere del Venerdì Santo; aggiunge il nome di San Giuseppe nel canone della Messa; stabilisce che tutti i cardinali siano vescovi; ripristina le stazioni quaresimali e le visite alle parrocchie romane, tradizione sospesa con la presa di Roma; esce dal Vaticano e va pellegrino a Loreto e Assisi; fa rimettere il Crocifisso nel Colosseo; difende il latino ma concede ai polacchi di cantare in polacco durante la Messa.
Le sue non sono trovate occasionali. Se ne rendono ben conto i 2.500 vescovi che vivono l’esperienza del Concilio. Dopo un’udienza il 29 ottobre 1962, mons. Helder Camara, battagliero arcivescovo di Olinda e Recife in Brasile, annota: «Questo Concilio convocato da un Papa che afferma la necessità di riformarci come cammino verso l’unità; un Concilio che non nasce per condannare quelli che sono fuori, ma per fare autocritica di quelli che sono dentro; un Concilio costruttivo, positivo, strada verso l’unità. Gli ho chiesto se gli osservatori (delle Chiese cristiane, n.d.r,) sono la prova che i fratelli credono nella nostra sincerità. Lui pensa di sì anche se non dimentica che 400 anni (protestanti) e 800 anni (ortodossi) di pregiudizi, invettive e sospetti reciproci non possono essere dissipati in un solo incontro. Riconosce la necessità di non rimanere fermo ad aspettare che tutta la strada sia fatta dall’altro. Non esita a riconoscere che abbiamo una grande colpa per tutto ciò che è accaduto. Ho domandato se non fosse possibile aprire le porte ai non cristiani, soprattutto agli ebrei, antenati che sono stati nostre vittime per secoli. Non esita un istante. Ritiene che, nel caso degli ebrei, una chiara confessione dei nostri peccati di antisemitismo avrebbe un effetto enorme. Siamo diventati buoni amici».
Roberto Tucci, gesuita e allora direttore de «La Civiltà Cattolica» racconta dell’intervista al Papa il 9 febbraio 1963: «Dalle 11.10 alle 12.50 resta seduto alla sua scrivania e mi parla dei suoi rapporti con i fratelli separati improntati a benignità unita a prudenza e senza illusioni: non serve a nulla urtarli. Con Fisher che insisteva a parlargli di “unità” girò il discorso sull’”Imitazione di Cristo” e lui se ne andò soddisfatto. A esemplificare i buoni frutti del suo atteggiamento di semplicità e bontà che smonta gli avversari, mi comunica in via riservata la notizia della scarcerazione del metropolita degli Ucraini (mons. Joseph Slipyi liberato in quei giorni, n.d.r.). Sottolinea che certi atteggiamenti “nazionalisti”, come quello dei vescovi ucraini, non fanno che irritare. Invece i buoni rapporti con Kruscev hanno ottenuto un passo distensivo. Non ritiene che Kruscev sia quel cinico che si dice; ha le sue gravi difficoltà interne ma è animato da buoni propositi».
Quando, nel maggio 1965, viene pubblicata la traduzione in inglese del «Giornale dell’anima», la famosa filosofa ebrea-tedesca, naturalizzata statunitense, Hannah Arendt scrisse una recensione sulla «The New York review of books» con un titolo fantastico: «Un cristiano sul trono di Pietro».