Nel 1967 a Torino, come in altre parti d’Italia, esplode il Movimento studentesco, che in febbraio e in novembre occupa Palazzo Campana, sede di Lettere, e che nel 1968 trova nuova legna da ardere nel «Maggio francese». In una città nella quale la Fiat ha imposto la monocultura tecnocratica-automobilistica, gli studenti si saldano con gli operai, in lotta per il contratto di lavoro e perché non vogliono diventare degli automi: ritmi di produzione, salari, discriminazioni sul posto di lavoro.
AUTUNNO 1969, LE LOTTE A RITMO SERRATO – I sindacati, specie la Cgil, e il Partito comunista faticano a controllare la situazione. L’«autunno caldo» innesca mobilitazioni oceaniche a Torino dove i metalmeccanici sono il 50 per cento dei lavoratori: interruzioni del lavoro in fabbrica; occupazione delle università e delle scuole; cortei operai da Mirafiori e dal Lingotto e si fondono con gli studenti che partono da Palazzo Nuovo, inaugurato quell’anno. Migliaia e migliaia di arrabbiati bloccano il centro. Alla fine i sindacati ottengono un contratto nazionale che contiene aumenti salariali indifferenziati, le 40 ore lavorative, ferie più lunghe e diritto di assemblea in fabbrica.
LA FIAT E L’AREA TORINESE NEGLI ANNI SESSANTA – Nel decennio 1951-61 l’espansione della Fiat avviene quasi esclusivamente nel territorio a Torino: Mirafiori è una delle più grandi concentrazioni operaie d’Europa. Gli occupati aumentano di più 100 mila unità, quasi esclusivamente nell’industria automobilistica e nell’indotto; altrettanti nel decennio 1961-71. Lo stabilimento di Rivalta occupa 20 mila nuovi operai. Poi Crescentino, Savigliano, la Lancia a Chivasso. Ancora nel 1973-74 la Fiat programma la maggior parte degli investimenti nell’area metropolitana. Ciò comporta l’espansione delle industrie fornitrici e collegate: l’indotto – dice Giovanni Agnelli nel giugno 1973 – assorbe il doppio dei posti di lavoro.
LA REPRESSIONE IN FABBRICA – L’espansione della multinazionale è frutto della divisione dei settori produttivi che riserva agli Stati Uniti e a pochi Paesi «forti» le nuove tecnologie e lascia a nazioni minori le produzioni meno importanti. La produzione di automobili occupa un numero elevato di operai e nel 1971 in Italia l’88 per cento è appannaggio della Fiat. Ma tale espansione avviene soltanto attraverso la compressione dei salari e con un intenso sfruttamento della manodopera. In Fiat solo nel 1943 si era osato scioperare contro i nazi-fascisti. Poi vince la repressione. Vittorio Valletta gode di un decennio senza scioperi perché finanzia il «sindacati giallo», sborsa il «premio di collaborazione» antisciopero, usa il guanto di ferro e attua una durissima repressione, come il licenziamento in blocco dei 370 operai dell’officina «Stella Rossa». Ottiene così la subordinazione quasi completa della classe operaia fino al 1962.
Il clima da «caccia alle streghe» viene trasferito all’amministrazione pubblica, alla stampa, alla vita torinese. Gli anni Cinquanta-Sessanta sono dominati dal più bieco conservatorismo. Il professor Giuseppe Grosso, docente all’Università, presidente della Provincia e poi sindaco di Torino, promuove l’Istituto di ricerche economiche e sociali (Ires), che vuole inserire il Piemonte nel sistema industriale dell’Europa centrale privilegiando e collegando le aree forti, lasciando l’Italia meridionale al suo destino. L’Ires ritiene necessario decentrare le attività su altri «poli» del Piemonte, «a condizione di non ridurre, nemmeno nel breve periodo, il tasso di crescita del sistema industriale, sviluppando la funzione di Torino come polo terziario». Per la provincia di Torino prevede nel 1959 un incremento di oltre un milione di abitanti, in realtà è sotto il mezzo milione.
Gli impiegati Fiat si considerano i «figli prediletti» di un esercito sterminato. La Fiat a Torino è tutto: dà il lavoro e il pane a tutti; ha un giornale «La Stampa» che gli operai chiamava «busiarda» ma poi la comprano; ha la Maif, una mutua tutta sua; i campi sportivi; le colonie estive al mare e in montagna per i figli dei dipendenti, che comprano molti prodotti scontati e a rate; organizza anche pellegrinaggi a Lourdes facendo accendere davanti alla Grotta di Massabielle il cero più alto e più grosso; il mensile «Illustrato Fiat» insegna a fare il minestrone e informa sulle strategie del gruppo. Quando il dipendente muore, il trattamento si diversifica: se è un operaio il necrologio porta la dicitura «dipendente Fiat»; se è un impiegato o un dirigente, al funerale intervengono da uno a quattro «guardioni», a seconda del ruolo, con la mantella blu e il logo aziendale con la scritta «Terra mare cielo»».
Il 1969 è un anno di straordinaria conflittualità operaia. Nei tre maggiori stabilimenti – Mirafiori, Lingotto e Rivalta – vanno in scioperi più di nove milioni di ore facendo perdere oltre un quinto della produzione. Le vertenze articolate di officina e di reparto, la contrattazione decentrata e la costante mobilitazione collettiva segnano il superamento delle antiche modalità di negoziazione.
La direzione aziendale si avvale di una struttura di gestione del personale fortemente accentrata e ha un inadeguato e superficiale approccio alle nuove assunzioni: a Torino e provincia in un quinquennio i dipendenti aumentati di quasi 50 mila unità. L’impresa paga a caro prezzo la rigidità organizzativa, con una sottovalutazione delle aspirazioni e dei comportamenti dei dipendenti. I vecchi negoziatori, tradizionali gestori della pace sociale, sono abituati a sedare il conflitto prima che si manifestino. Ora le trattative avvengono con il fiato sul collo di migliaia di lavoratori in sciopero e con una microconflittualità sempre più diffusa e ingovernabile. Il rientro dei licenziamenti, ottenuto dai sindacati con un intervento in prima persona del ministro del lavoro Carlo Donat-Cattin, nell’autunno 1969, è uno dei momenti più significativi.
Il gigantismo industriale è documentato dalle cifre: Mirafiori nel 1969 ha 47 mila operai; Rivalta ne conta più di 13.500; al Lingotto lavorano 6.700 dipendenti, una manodopera più anziana. È la conseguenza della vorticosa immissione di nuovi assunti: 15 mila ogni anno. A Torino i residenti nel solo 1969 aumentano di 52.279 unità, con un devastante impatto sul territorio e i conseguenti alti costi sociali. Crolla il paternalismo Fiat. Osserva ikl professor Marco Revelli: «Per ironia della sorte ora la Fiat si ritrova contro la dimensione comunitaria e famigliare, come cemento della rivolta e come fattore costitutivo di un’identità nemica».
Racconta il giornalista Casre Roccati; «Da Mirafiori si formavano cortei faraonici. Spesso marciavamo in prima fila. Dietro c’erano dalle 40 alle 80 mila persone: operai in tuta, che battevano tamburi di latta e inneggiavano con cori e striscioni giganteschi. “Agnelli e Pirelli, ladri gemelli” era il più pudico. Talvolta il questore ci fermava, con la fascia tricolore al comando di 4-500 poliziotti armati intimandoci: “Dovete fermarvi”. Qualcuno rispondeva: “Guardate quanti siamo, dovete ammazzarci tutti”. E si tirava avanti. Un giorno, in corso Traiano, non andò così. Nel corteo si infilarono dei provocatori che buttarono una bomba artigianale. La polizia intervenne, ci furono morti e scorse tanto sangue».
«La prima grande assemblea cui partecipai fu nel cuore di Mirafiori. Ricordo un capannone gigantesco. Dentro c’era di tutto: due interminabili catene di montaggio con centinaia di auto sospese, che si snodavano come serpentoni. C’erano forni giganteschi che sembravano la bottega di Vulcano. C’erano rotaie su cui viaggiava acciaio rovente. C’erano presse di dimensioni impressionanti e forte odore di vernice. C’era poca luce, tanto fumo e migliaia di persone in tuta o in canottiera assiepate come allo stadio. La metà di loro fumava. Più che una fabbrica, sembrava un girone dantesco. Ricordo volti tesissimi. Ma quando Bruno Treritin salì su un bancone e disse “Compagni”, da tutti gli angoli partì un boato di applausi: i vecchi operai piemontesi, i ragazzi venuti dal Sud, con le loro mani durissime, imbrattate di olio o di vernice. E quando Pierre Carniti propose una raffica di scioperi e l’occupazione “simbolica” degli stabilimenti il boato raddoppiò di intensità. In quei due anni “caldi” accadde di tutto: scioperi a raffica, cortei faraonici, scontri spesso durissimi con la polizia e ci furono anche morti. Ma ci furono anche altre morti, anonime, silenziose, drammatiche. Erano i suicidi dei ragazzi del Sud: a ogni cassa integrazione si sentivano perduti e sminuiti nel loro essere uomini e padri».