«La Costituzione entra in fabbrica». Cinquant’anni fa, il 20 maggio 1970, lo Statuto dei lavoratori diventa legge, una delle più grandi conquiste sindacali e la principale normativa sul lavoro. C’erano volute 220 milioni di ore di sciopero per ottenerlo. È il principale frutto dell’«autunno caldo» del 1969 e giunge 5 mesi dopo che Carlo Donat-Cattin, ministro del Lavoro, ottiene la firma degli imprenditori sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Lo Statuto introduce notevoli modifiche nelle condizioni di lavoro e nei rapporti fra datori di lavoro, lavoratori e sindacati.
UNA LUNGA STORIA – L’esigenza di una regolazione precisa cresce nella seconda metà del XX secolo dopo il crollo della dittatura fascista e la guerra. La Costituzione, al primo articolo, fissa: «L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro». La normativa era scarna: fissava limiti minimi di età al lavoro minorile in cave e miniere; riduceva la giornata a 11 ore per i minori e a 12 per le donne; ammetteva il diritto di sciopero e di sindacato. La legge 1369 del 23 ottobre 1960 – sessant’anni fa – vietava il caporalato. Giuseppe Di Vittorio, presidente della Federazione sindacale mondiale, al terzo congresso della Cgil a Napoli nel 1952 chiede una legge quadro e parla di «Statuto». L’inchiesta delle Acli di Milano «La classe lavoratrice si difende» nel 1953 denuncia lo sfruttamento e la discriminazione dei lavoratori. Se ne riparla al convegno promosso dalla Società Umanitaria di Milano nel 1954. Il Parlamento nel 1955 promuove un’inchiesta sulle «Condizioni di lavoro nelle fabbriche».
PRIMA I PADRONI ERANO ONNIPOTENTI -Negli anni Cinquanta-Sessanta il lavoro si trasforma da rurale in industriale, creando un’intensa emigrazione verso Belgio, Francia, Svizzera, Germania e verso il Nord Italia, specie Genova-Milano-Torino. È disponibile una forza-lavoro senza precedenti e le industrie del Nord, con a capo la Fiat, rastrellano manodopera a basso costo. Si ha coscienza dell’eccessiva sperequazione a favore degli imprenditori che gestiscono con criteri discrezionali i rapporti con il personal. Contro questo stato di cose, la «Triplice» Cgil, Cisl, Uil può poco o nulla. Alla condotta sempre più dura delle imprese risponde una lotta asperrima dei lavoratori: occupazione di fabbriche, picchettaggi, scioperi selvaggi a scacchiera, blocco della produzione, violenti scontri di piazza con le forze dell’ordine.
A livello politico si cerca di costruire e rafforzare il centrosinistra con i socialisti di Pietro Nenni, vicepresidente del Consiglio nel primo governo Moro di «centrosinistra organico». Nel 1963 emana norme per la tutela delle lavoratrici, vieta il licenziamento per causa di matrimonio, consente l’accesso delle donne ai pubblici uffici e alle professioni; la legge 1124 del 30 giugno 1965 regola gli infortuni e le malattie professionali; la 903 del 21 luglio 1965 introduce la pensione di anzianità e quella sociale; la 604 del 15 luglio 1966 regola i licenziamenti.
LA BATTAGLIA DI BRODOLINI E DONAT-CATTIN – Tutte leggi promosse dal Psi, che si batte per il divorzio, per regolare il lavoro agrario, per lo «Statuto». Giacomo Brodolini, già sindacalista socialista della Cgil, ministro del Lavoro riforma le pensioni passando dalla «capitalizzazione» alla «ripartizione»; abolisce le «gabbie salariali»; istituisce una commissione nazionale per la redazione dello «Statuto dei diritti dei lavoratori» e chiama alla presidenza Gino Giugni, socialista e docente universitario. Brodolini muore l’11 luglio 1969 per un cancro. Al Ministero gli subentra il democristiano Carlo Donat Cattin, ex-sindacalista della Cisl torinese, molto critico con la Fiat, il politico più «ruvido» della Dc. Alla Camera pronuncia un intervento durissimo: «I rilievi mossi allo Statuto risentono in gran parte di una mentalità privatistica dei rapporti sindacali e riflettono un punto di vista talvolta esasperato fino a visioni di tipo americanistico che vedevano il sindacato come libero agente operante nella società al di fuori di ogni regolazione giuridica». La punta avanzata del padronato è rappresentata dalla Fiat con «massicci licenziamenti di carattere politico e antisindacale: taluni imprenditori risentono di una mentalità sorpassata della funzione imprenditoriale». Scrive lo storico Giorgio Aimetti: «Donat-Cattin riusciva a far approvare lo Statuto in una temperie che vedeva un fragile governo monocolore Dc sballottato in un clima surriscaldato dalla stagione dei contratti e dalle divisioni dei socialisti. La legge era figlia dei tempi e delle lotte operaie che animavano il Paese. Da Brodolini, Donat-Cattin prese il progetto di legge e la squadra di esperti, in primis Gino Giugni».
DIVISO IL MONDO CATTOLICO – Aimetti ricorda: «I cattolici avevano posizioni differenti. Contrari gli esponenti della Cisl, Giulio Pastore, Bruno Storti, Mario Romani; favorevoli la minoranza Cisl con Donat-Cattin e le Acli. La legge era un progetto a più mani. Donat-Cattin condusse in porto un provvedimento che traeva forza dalle lotte del 1969. Ma ci volle la sua determinazione perché fosse approvato in Senato a metà dicembre 1969, nei giorni dell’accordo per i metalmeccanici e della bomba di piazza Fontana. Di Donat-Cattin era nota non solo la determinazione ma anche la capacità di sfruttare gli espedienti parlamentari, di conoscere i meccanismi legislativi, di mettere a frutto il suo immenso prestigio». Al Senato il ministro afferma: «Lo Statuto è una legge democratica, l’affermazione del pieno diritto dei lavoratori a essere cittadini in ogni parte del territorio nazionale e in ogni funzione. Lo Statuto è una legge importante perché fissa principi che contano soprattutto nelle fasi di riflusso. Lo Statuto è un’affermazione dura e precisa dei diritti dei lavoratori che come cittadini partecipano alla Costituzione di una Repubblica fondata sul lavoro e vogliono che sia riconosciuta la possibilità di organizzare e di manifestare i propri interessi, che essi sanno inquadrare nel contesto degli interessi nazionali e che vengono sostenuti senza briglia per l’affermazione di queste esigenze».
I COMUNISTI PERDONO UN’OCCASIONE STORICA – Alla Camera lo «Statutoۚ» è approvato con 217 sì del centrosinistra (Dc, Psi e Psdi, Pri) più i liberali, che sono all’opposizione; 10 no; si astengono Pci, Psiup e Msi. Anche questa volta – come già nel 1964 per la media unica – il Pci perde un’occasione storica. Dice Giancarlo Pajetta alla Camera e scrive «l’Unità»: «Il Pci si astiene per sottolineare le serie lacune della legge e l’impegno a urgenti iniziative che rispecchino la realtà della fabbrica. Il testo contiene carenze gravi e lascia ancora molte armi al padronato». Titola l’«Avanti!»: «Lo Statuto dei lavoratori è legge» e attacca «l’atteggiamento dei comunisti, ambiguo e chiaramente elettoralistico».
COSA DICE LO STATUTO DEI LAVORATORI – Lo Statuto sancisce la libertà di opinione del lavoratore, che non può essere oggetto di trattamento differenziato per le sue opinioni politiche o religiose e che non può essere per questo indagato in fase di assunzione. L’attività lavorativa è svincolata da alcune forme di controllo: divieto di assegnare le guardie giurate al controllo dell’attività dei lavoratori; divieto degli impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per controllare i lavoratori; divieto delle visite di controllo sul lavoratore – cosa diversa sono gli accertamenti sanitari -, le perquisizioni all’uscita del turno; vietati gli accertamenti sull’idoneità e sull’infermità del lavoratore; le visite fiscali sono delegate agli enti pubblici competenti. Sono previsti permessi per studio nelle scuole primarie, secondarie, formazione professionale, università. Dopo la privatizzazione del diritto del lavoro pubblico, avvenuta negli anni Novanta, lo Statuto è esteso ai dipendenti pubblici.