«Dalla fine del mondo» cinque anni con Papa Francesco

«Fratelli e sorelle, buonasera!» – La sera del 13 marzo 2013 l’elezione del Papa argentino e gesuita, di origini piemontesi, inaugura il «pontificato della misericordia»: Francesco vuole una Chiesa povera e per i poveri

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Elezione Papa Francesco (13 marzo 2013)

«Fratelli e sorelle, buonasera». Cinque anni fa, mercoledì 13 marzo 2013, alla loggia esterna di San Pietro compare Papa Francesco, argentino con solide radici subalpine: i nonni astigiani, il papà nato a Torino e battezzato nella chiesa di Santa Teresa nell’omonima via. Un Papa capace di parlare a tutti e che difende il suo predecessore. Di Benedetto XVI si ricordano gli errori e si dimenticano i meriti: la «tolleranza zero» verso i preti colpevoli di pedofilia; la trasparenza in economia; la «nuova evangelizzazione» in un Occidente; l’umile discesa dal trono dopo la quale è sparito dalla scena.

Un Conclave brevissimo – durato 22 ore, dalle 17.33 del 12 marzo alle 19.06 del 13 – elegge un Papa sudamericano, gesuita, vocazione adulta, perito chimico. Rifiuta il Palazzo Apostolico, sceglie Casa Santa Marta, mangia in refettorio con i dipendenti vaticani, viaggia in utilitaria, si porta la borsa nera, esce per andare dall’ottico, telefona e scrive alle persone sofferenti; fa mettere sotto il Colonnato del Bernini le docce per i barboni. Con Francesco il papato si umanizza e si desacralizza. È il «pontificato della misericordia». Nell’esortazione apostolica «Evangelii gaudium» (2013) la parola «misericordia» appare ben 31 volte; indice il Giubileo straordinario 2015-16 che ha al centro la misericordia di Dio; declina la misericordia nelle situazioni in cui vive l’uomo, come nel matrimonio e nella famiglia. Francesco vuole una Chiesa libera dal peccato, povera «per» e «con» i poveri, che annuncia Cristo «la buona novella». Denuncia il male; sferza i camorristi e i mafiosi, i mercanti di armi, di guerra, di morte, degli esseri umani: «C’è una parola brutta che dice il Signore: “Maledetti”. Questi che operano la guerra, che fanno le guerre sono maledetti, sono delinquenti».

I suoi «nemici» sono tanti, come documenta il bel libro di Nello Scavo «I nemici di Francesco» (Piemme): qualcuno lo vuole screditare, qualcuno lo vuole far tacere, qualcuno lo vuole morto. Donald Trump, i clerico-fascisti, i lefebvriani lo odiasno. Qualcuno dice: «Il Papa è un comunista». Niente di nuovo sotto il sole: dopo l’enciclica di Leone XIII «Rerum novarum» (1891) il giornale della borghesia meneghina «Corriere della Sera» tuonò: «Attenti, questo Papa è socialista». Bergoglio condanna la «cultura dello scarto» che espelle gli anziani e sopprime i bambini: «L’aborto non è un male minore. È un crimine. È fare fuori uno per salvare un altro. È quello che fa la mafia. La corruzione “spuzza”, la società corrotta “spuzza”. Chi pratica tangenti dà ai figli pane sporco».

Ha un ritmo di vita sfiancante. Non fa mai ferie. Sveglia alle 4,45. Legge i «cifrati» provenienti dalle nunziature di tutto il mondo. Prega e medita. Alle 7 celebra Messa a Santa Marta con omelia a braccio e saluta a uno a uno i partecipanti. Dopo colazione, udienze e incontri. Alle 13 pranzo e mezz’ora di siesta. Nel pomeriggio preghiera, incontri, disbrigo della corrispondenza e telefonate. Un’ora di adorazione eucaristica, cena, a letto presto. Sempre sorridente quando è tra la folla, serio quando riceve, assorto quando celebra.

C’è un recente episodio che documenta lo stile pastorale e paterno, dolce e roccioso, caritatevole e fermo di Francesco; la pazienza di un vescovo africano; la cattiveria e l’odio di alcuni preti e laici nigeriani. È il miglior omaggio nel quinto anniversario dell’elezione. Mons. Peter Ebere Okpaleke il 7 dicembre 2012 è nominato vescovo di Ahiara da Benedetto XVI: per cinque anni gli impediscono di prendere possesso della diocesi ed è costretto alle dimissioni dalla forte ostilità di parte della popolazione e del clero perché è di un’etnia diversa. L’8 giugno 2017 Francesco interviene con decisione su una situazione scandalosa e a una delegazione di Ahiara, venuta dalla Nigeria, dice: «Sono molto triste per la vicenda della Chiesa in Ahiara, che è come in stato di vedovanza perché è stato impedito al vescovo di andarvi. Mi è venuta in mente la parabola dei vignaioli assassini (Matteo 21,33-44) che vogliono appropriarsi dell’eredità. La diocesi è come senza sposo, ha perso la sua fecondità e non può dare frutto. Chi si è opposto alla presa di possesso del vescovo vuole distruggere la Chiesa. Ciò non è permesso: la Chiesa soffre e il Papa non può essere indifferente. Ho un grande dolore per i sacerdoti che sono manipolati. Si tratta di un caso non di tribalismo ma di appropriazione della vigna del Signore. Chiedo che ogni sacerdote scriva una lettera a me in cui domanda perdono. Chi scrive deve chiaramente manifestare totale obbedienza al Papa, deve essere disposto ad accettare il vescovo che il Papa invia. Chi non lo fa è ipso facto sospeso a divinis e decade».

La Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli – dalla quale dipende la Nigeria con la diocesi di Ahiara – informa che «il Papa ha ricevuto 200 lettere dei sacerdoti che manifestano obbedienza e fedeltà. Alcuni fanno presente la difficoltà di collaborare con il vescovo dopo anni di conflitto. In considerazione del pentimento, il Papa non procede con sanzioni canoniche. La Congregazione auspica che mai in futuro si ripetano irragionevoli opposizioni a un vescovo legittimamente nominato».

Mons. Okpaleke in una lettera pastorale ricorda come fin dalla nomina nel 2012 esplodono «reazioni violente e resistenze di un gruppo di preti, di laici e di altri. Venni consacrato il 21 maggio 2013. Da cinque anni, due mesi e una settimana non ho potuto prendere possesso della diocesi. Neanche gli interventi della Congregazione e della Segreteria di Stato non hanno dato frutti. Fino a oggi i legittimi rappresentanti della Chiesa non hanno accesso alla diocesi. Quindi, per il bene della Chiesa e della diocesi, ho chiesto al Papa di accettare le mie dimissioni. L’ho fatto per il bene di tutti i fedeli, specie di coloro sono rimasti fedeli. Considero le mie dimissioni come la sola opzione corretta per facilitare la rievangelizzazione dei fedeli e dei preti. Esorto i preti dissidenti a riesaminare le loro motivazioni».

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