Come il Murialdo a cercare i ragazzi sulle rive del Po

Intervista – Padre Tullio Locatelli, Giuseppino del Murialdo, nuovo superiore generale della congregazione fondata dal Santo sociale torinese, dialoga sull’impegno educativo nei confronti dei giovani più poveri alla luce del Sinodo dei Vescovi che si tiene dal 3 al 28 ottobre in Vaticano

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Padre Tullio, giusto 50 anni fa, nel Sessantotto, lei ha emesso i primi voti religiosi, in un’epoca il cui il mondo giovanile era attraversato da grandi fermenti. Che cosa significa oggi essere alla guida di una congregazione nata per servire i giovani, e i giovani più poveri?

Nel 1968 avevo 17 anni, avevo appena finito il noviziato e iniziavo come professo di voti temporanei la mia vicenda da giuseppino. In noviziato i padri ci leggevano dei brani tratti dai documenti conciliari. Non saprei dire che cosa veramente comprendessi. Di sicuro c’era un’aria ricca di speranza, si parlava di nuova Pentecoste della Chiesa; si sperava in una rinnovata  fioritura vocazionale alla vita sacerdotale e religiosa; noi stessi venivamo da seminari minori pieni di ragazzi e costruiti da poco tempo. Ciò che succedeva fuori delle mura della comunità di formazione era da noi pochissimo conosciuto; pensandoci ora ricordo che sentivamo giudizi moralistici su i giovani dei quali adesso molti erano diventati «cattivi»; nulla sulle cause di un mondo in cambiamento. Nel 1969 si fece il Capitolo generale straordinario e anche la congregazione dei Giuseppini del Murialdo iniziò un tempo di riflessione e di rinnovamento. Oggi, a 50 anni di distanza, sento il desiderio di mantenere quello spirito di speranza, di fiducia, di ragionare sul presente guardando il futuro. Dentro i cambiamenti, da interpretare e da gestire, rimane fermo un carisma, cioè un atteggiamento fondamentale, che parla di attenzione, ascolto, prendersi cura dell’altro, di essere accanto al giovane in un mondo che cambia. Credo che gran parte del mio servizio stia qui: accanto ai confratelli che sono un segno di speranza e di fiducia per tanti giovani, con «umiltà e carità», le virtù caratteristiche dei Giuseppini del Murialdo.

In mezzo secolo di vita religiosa lei ha sperimentato tanti aspetti del ministero sacerdotale fino alla responsabilità della Provincia italiana e segretario generale, visitando tutte le vostre comunità in America Latina, Africa, India e Stati Uniti e poi padre generale. Cosa significa oggi essere sacerdote e religioso giuseppino?

La Congregazione giuseppina oggi ha una grande sfida: sentirsi una sola famiglia grazie al carisma di san Leonardo Murialdo ed incarnare tale dono dello Spirito in 16 nazioni diverse. È un processo di incarnazione, di inculturazione. Non siamo esenti dalla fatica di riconoscere (cioè di fare nostra la realtà nella quale siamo immersi), di interpretare (fare della realtà giovanile una lettura alla luce del Vangelo e delle scienze umane), di scegliere (siamo chiamati a fare discernimento in vista di una scelta pensata ed attuata come risposta ad un bisogno). Il punto di partenza non siamo noi: sono i giovani; meglio questi (qui e adesso) giovani che il Signore oggi ci affida. Nel Capitolo Generale ultimo abbiamo parlato molto di discernimento comunitario: è una scelta culturale e spirituale insieme, è un modo che vorremmo fare nostro nel porci di fronte alle sfide del mondo giovanile.

La vostra congregazione è profondamente radicata nel territorio. Con quali idee e quali linee i Giuseppini intendono rapportarsi alla realtà italiana, e a quella diocesana in particolare, visto che a Torino la congregazione è nata e cresciuta ed è ancora presente con opere molto significative?

I Giuseppini sono prima di tutto educatori e come tali sono evangelizzatori: non si tratta di un dualismo, di un prima e di un dopo, si tratta di educare evangelizzando e di evangelizzare educando. Ci poniamo a servizio della vocazione del giovane; oggi, forse più di ieri, educare è aiutare a scoprire che cosa il Signore vuole da ciascuno. Il giovane che appartiene ad una comunità (civile-sociale-ecclesiale) va educato nella e con la comunità: il Giuseppino ha il compito di coinvolgere la comunità nell’opera educativa dei giovani. L’opera educativa è promotrice di cambiamento sociale se è «inclusiva», capace di coinvolgere e promuovere tutti, a partire dai più deboli e dai più poveri. Detto questo, gli strumenti possono essere tanti; la tradizione giuseppina ci ha consegnato soprattutto questi: la scuola, la parrocchia, il centro di formazione professionale, l’oratorio, l’accoglienza di minori, ecc.   Le nostre opere sono una grande opportunità per il servizio educativo, ma oggi vanno interpretate e vissute  «in uscita», direbbe papa Francesco. Non possiamo aspettare che i ragazzi vengano, occorre uscire ed andare incontro. Mi viene in mente il Murialdo con il campanello in mano che, lungo il Po chiamava i ragazzi all’oratorio. Mi piacerebbe sapere che qualche giuseppino stia sulle rive del Po, e su tante altre sponde, per parlare, dialogare, aiutare, consolare, invitare…

Il vostro capitolo XXIII generale  aveva come tema, in vista del Sinodo del giovani: «In cammino con i giovani e in ascolto di un modo che cambia, annunciamo la gioia del Vangelo nella condivisione del carisma». San Leonardo diceva che «per ogni oratorio che si apre si chiude un carcere». Come si tradurrà questo impegno accanto ai giovani nelle 105 vostre comunità?

L’elemento fondamentale è creare un atteggiamento di vero ascolto delle persone e delle situazioni. È un atteggiamento da fare proprio a livello personale e comunitario. Da qui parte il discernimento in vista delle scelte. In India due anni fa abbiamo iniziato una «Family House», una struttura per ragazzi che hanno famiglia ma che hanno bisogno di essere seguiti durante tutto il giorno. Non è un collegio e nemmeno una casa di accoglienza aperta giorno e notte; si potrebbe dire che permette un’ azione di accompagnamento di alcuni ragazzi che la famiglia fa fatica a seguire e quindi possono essere a rischio. A Ibotirama in Brasile c’è una struttura simile: permette di aiutare le famiglie ma di non togliere a loro la possibilità di seguire i figli ed esercitare la loro responsabilità di genitori. A noi sembra importante creare delle opere per i ragazzi e i giovani che non siano chiuse,  ma aperte alla collaborazione delle famiglie, soprattutto; che siano collegate in rete con le agenzie (scuola, parrocchia, oratorio, ecc.) che sul territorio possono essere di supporto. C’è anche un’altra scelta: essere più presenti nell’azione preventiva, non solo curativa. Per questo vale ancora la parola del Murialdo, ricordata nella domanda.

San Leonardo Murialdo, rettore per 30 anni degli Artigianelli, con centinaia di orfani da sfamare e molti debiti, nei momenti più difficili,  andava a chiedere l’elemosina per i suoi ragazzi con un bussolotto davanti al santuario della Consolata e, di notte, i suoi collaboratori lo trovavano sfinito in preghiera disteso sul pavimento della cappella del Collegio davanti al Santissimo… È ancora questo lo stile del Giuseppino del Murialdo?

È sempre difficile imitare i santi, tuttavia anche oggi  per rimanere fedeli al carisma  lavoro e preghiera, fatiche e problemi, gioie e apprensioni, si mescolano nella giornata del Giuseppino del Murialdo. Più di ieri abbiamo coinvolto i laici nel nostro apostolato nella convinzione che il carisma murialdino può animare una comunione di vocazioni, che noi chiamiamo Famiglia del Murialdo, che mentre vive della medesima spiritualità la incarna secondo il proprio stato di vita: sacerdote, religioso/a,  consacrato/a, laico/a. Credo che questa sia la risorsa più grande sulla quale si scommette molto del nostro futuro. Un carisma capace di coinvolgere, che da collaboratori rende corresponsabili, che pone laici e religiosi insieme di fronte alle sfide del mondo di oggi. Siamo all’inizio di un nuovo tratto della nostra storia: vogliamo essere fedeli al passato senza che esso diventi una remora per il presente, guardiamo fiduciosi al futuro per il quale facciamo oggi scelte che speriamo sappiano di profezia. Di certo con l’aiuto di san Giuseppe.

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