Vallette, con i libri riprendiamo in mano la nostra vita

Torino – Il 28 novembre presso il carcere «Lorusso e Cutugno» si sono celebrati i vent’anni dall’avvio della sezione «dietro le sbarre» dell’Ateneo subalpino. Franco Prina, delegato del Rettore per il Polo universitario, ci parla dei 40 studenti iscritti

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Franco Prina, docente di Sociologia della devianza presso la Facoltà di Giurisprudenza, è il delegato del Rettore dell’Ateneo Torinese per il Polo universitario per gli Studenti detenuti presso La Casa Circondariale «Lorusso e Cutugno». Lo abbiamo intervistato in occasione dei 20 anni di attività didattica nel carcere delle Vallette.

Professore, Torino è la prima Università in Italia ad avere istituito un Polo universitario «dietro le sbarre». Ancora una volta la nostra città è laboratorio di cultura. Cosa significa celebrare il ventennale di un istituzione così complessa e di alto valore sociale?

La storia dell’impegno dell’Università di Torino per i detenuti è ancora più lunga. In questi giorni celebriamo i 20 anni dalla firma del primo protocollo di intesa che formalizzò i rapporti tra carcere e Università che si erano aperti nella stagione delle detenute e dei detenuti delle formazioni armate. Donne e uomini che avevano chiesto di poter riprendere gli studi e che trovarono in alcuni docenti della Facoltà di Scienze Politiche un ascolto e una disponibilità al dialogo attraverso seminari e ricerche. Da quelle prime esperienze maturò l’idea di garantire opportunità di iscrizione ai corsi universitari. E i responsabili dell’Istituto offrirono le condizioni organizzative perché si realizzasse il primo «Polo» universitario in un carcere italiano, ossia una sezione interamente dedicata agli studenti universitari in cui i docenti, prima di Scienze politiche e poi anche di Giurisprudenza, potevano entrare a fare lezione e seguire i percorsi di studio fino alla laurea.

Com’è cambiata in questi 20 anni la popolazione carceraria che chiede di iscriversi all’Università?

Nel tempo si sono inseriti al Polo detenuti con storie personali diverse, ma sempre con pene lunghe e dunque reati in genere gravi. L’unicità dell’esperienza portava a Torino detenuti da varie parti di Italia. Hanno cominciato a inserirsi persone di origine straniera. Nei tempi più recenti c’è stato un interesse anche da parte di persone non più giovani, tra cui alcuni «colletti bianchi», responsabili di reati di impresa. Ma questo ha a che fare con le diverse motivazioni che spingono a chiedere di essere ammessi al Polo.

Quali sono queste motivazioni?

L’esperienza dello studio universitario, può assumere diversi significati. Per una parte dei detenuti la frequenza di un corso universitario significa esercitare un diritto, a volte rivendicandolo a partire da una consapevolezza che può essere preesistente al momento della reclusione o maturare in carcere nel dialogo con avvocati, personale educativo, volontari, altri detenuti. Per molti – forse la maggioranza – studiare in maniera organizzata e sistematica ha il significato di dare un senso a una esperienza difficile e particolare nel proprio percorso esistenziale come quella del carcere: nello studio e nella cultura molti trovano una opportunità di riflessione sulla propria vita e sulle vicende e condizioni che li hanno portati in carcere. Ma anche sul mondo, sulla società, sui valori, sui diritti e sui doveri, propri e altrui. Per i più giovani, soprattutto, lo studio e il percorso che porta a una laurea universitaria può essere considerato importante per prospettarsi un futuro, dopo il carcere: per prepararsi cioè ad affrontare con più strumenti culturali, con maggiori conoscenze, con un titolo almeno in alcuni casi spendibile, le sfide non facili che si aprono a chi quella esperienza ha fatto. Non solo per il valore che possono avere un titolo di studio e le competenze acquisite, ma perché l’individuo potrà «rappresentare» al mondo (alla sua famiglia, a chi lo conosce, a chi può offrirgli opportunità di lavoro, ecc.) un’ immagine di sé altra da quella che accompagna tutti gli ex detenuti.

Infine, non si può ignorare il ruolo che l’accesso a questa opportunità (al pari dell’accesso ad altre, per definizione sempre scarse) riveste ai fini di «farsi meglio la galera». Per vivere cioè la detenzione in condizioni meno difficili, in un contesto in cui la vita quotidiana e la qualità delle relazioni tra gli stessi detenuti e con lo staff, anche per i tanti scambi con l’esterno, sono in genere di gran lunga migliori di quelle che si determinano nelle sezioni «normali» di tante carceri.

Lei è docente anche degli studenti «fuori»: qual è la differenza fra gli iscritti «liberi» e quelli ristretti?

Ci sono oggettive differenze legate all’età e alla maturità delle persone che sono in carcere. Molte di loro hanno esperienze di vita complicate e hanno sperimentato rapporti con le istituzioni penali e penitenziarie che segnano le personalità. La scelta di studiare nel periodo della detenzione è in genere una scelta che, per i motivi che ho illustrato, ne fa degli studenti molto interessati ai contenuti delle varie discipline e quasi sempre impegnati a «riuscire» bene negli esami. Così anche i risultati sono in genere buoni. Senza contare che in carcere non vi sono le molte distrazioni che segnano oggi l’esperienza dei giovani studenti universitari e a volte compromettono la concentrazione e la riuscita negli studi…

Quali sono gli esiti sul piano dei percorsi successivi alla carcerazione?

Il progetto torinese si contraddistingue anche per l’impegno ad accompagnare nelle fasi successive alla carcerazione i detenuti inseriti al Polo. In particolare con l’impegno dell’Ufficio Pio della Compagnia San Paolo e del Fondo Musy che consente di offrire, ai detenuti che maturino le condizioni per l’accesso alle misure alternative, opportunità di tirocini e borse lavoro con l’impegno di portare a termine i percorsi di studi, prevedendo che una parte della giornata sia trascorsa in Università. In queste opportunità molti trovano le occasioni di riprendere in mano la propria vita.

 

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