«Caro don Giovanni, che bella notizia che mi dai! Stiamo battendo per riuscire a farla rimpatriare, ancora non ce l’abbiamo fatta ma stiamo facendo il possibile per vedere come si può fare». Così in 15 secondi di registrazione su WhatsApp l’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, qualche mese fa condivideva con don Giovanni Piumatti (per 50 anni fidei donum della diocesi di Pinerolo nel Nord Kivu) la soddisfazione nel sapere che suor Annalisa Alba della Congregazione della Sacra Famiglia di Spoleto colpita da Covid stava meglio e confermava il suo impegno nel cercare di farla rientrare nel nostro Paese (rimpatrio avvenuto con successo in settembre).
Una voce che testimonia quell’umanità e attenzione agli ultimi con cui il sacerdote ci descrive l’ambasciatore ucciso con l’autista musulmano Mustafa Milambo e con il carabiniere Vittorio Iacovacci il 22 febbraio durante un trasferimento da Goma a Rutshuru per portare aiuti alimentari del World Food Programme ad una scuola. Una testimonianza, quella di don Piumatti, che trova riscontri nelle parole di cordoglio e affetto di tanti missionari (sabato sera prima dell’agguato era stato dai Saveriani a Bukavu) che lo hanno conosciuto nel Paese africano e che rimbalzano sui social e sui cellulari sin dai primi momenti in cui si è appresa la notizia.
Parole e che si aggiungono a quelle istituzionali (da Papa Francesco al presidente Mattarella, dall’Arcivescovo di Milano al presidente del Consiglio, al sindaco della città di Limbiate, dove è cresciuto) e di familiari, amici e concittadini che hanno in momenti e situazioni diverse intercettato l’ambasciatore, confermando stima e riconoscenza per una professionalità esercitata con passione, rispetto, umiltà, entusiasmo per il bene dei connazionali e della popolazione congolese; valori di pace fraternità e promozione sociale condivisi con la moglie Zakia Seddiki, originaria del Marocco, con la quale Attanasio aveva dato vita alla onlus Mama Sofia per il recupero di bambini di strada.
Un agguato, un assassinio che al momento non è stato rivendicato e che ha suscitato indignazione, rabbia, ma anche numerosi interrogativi su modalità (sono intervenuti nella sparatoria anche i ranger del parco, chi hanno colpito? Illeso il terzo italiano Rocco Leone, funzionario del Wfp, perché non è stato preso?), motivazioni (rapimento a scopo di estorsione? Avvertimento agli stati europei o all’Italia nello specifico? Destabilizzazione ulteriore del Paese?), responsabilità (perchè senza scorta su una strada che attraversa il parco naturale della Virunga, al confine con il Ruanda, da sempre infestato di bande e trafficanti?), che ha riportato la situazione del Congo e in particolare della zona del Kivu all’attenzione internazionale.
«La prima cosa», spiega don Piumatti, «alla quale fare attenzione è quella di non cadere nelle semplificazioni. Il linguaggio che già corre per descrivere la situazione è questo: centinaia di ‘gruppi armati’, generiche ‘forze ribelli’ e di fatto ne conosciamo un certo numero, ma mi sento di dire che è menzogna totale buttare su di loro questo fattaccio – anche se non è difficile assoldare qualche piccolo individuo – sono tentato di aggiungere che faccio fatica anche a leggervi la firma degli Adf (Allied Democratic Forces) di origini ugandesi, o dei Fdlr (Forze Democratiche per la liberazione del Ruanda), infatti nel nebbioso pantano del Nord Kivu, oltre ai numerosi gruppi armati, di cui è più facile parlare, non dimentichiamo che ci sono: Ruanda, Governo congolese stesso, Monusco, multinazionali, petrolieri, Usa, stati europei… Ci sono tanti attori per grossi interessi che fanno gola a tutti».
I «grossi interessi» sono di fatto paradossalmente la rovina della popolazione congolese: le ricchezze del suolo (petrolio, coltan, oro) sono infatti un continuo richiamo «a essere depredate» da chi le vorrebbe per sè «e per questo scopo è indispensabile che il Paese sia instabile, lacerato, non abbia le forze per contrattare o gestire autonomamente i beni di cui dispone. Si parla a questo proposito di ‘progetto di balcanizzazione’ da parte degli altri stati confinanti e non: si dividono il Paese, alimentano l’odio e la paura al suo interno e indisturbati se ne sottraggono i beni».
«Oggi», prosegue, «in conseguenza di quanto è successo l’Europa si indigna, scopre la violenza che però per la popolazione congolese è all’ordine del giorno: rapimenti, uccisioni si susseguono ormai da anni nel silenzio internazionale. Questa è l’unica speranza in questo momento: che il faro che purtroppo la morte dei nostri connazionali e dell’autista ha acceso sul Congo non si spenga, ma risvegli le nostre coscienze di persone che usano cellulari, consumano cacao, usano petrolio, spesso ‘rubati’ a prezzo del sangue di tante persone – e della distruzione dell’ambiente – e sotto il silenzio della comunità internazionale. Ci si deve interrogare, si deve pretendere dalle multinazionali la legittimità, la chiarezza, su quanto si usa e su come arriva da noi…».
Risveglio delle coscienze, attenzione internazionale ma non solo: padre Piumatti richiama anche un altro percorso di speranza per il Paese che la stessa Onlus della moglie dell’ambasciatore stava perseguendo: quella di offrire alternative ai ragazzi di strada, quella di sottrarli ai ribelli. «Siamo in un momento in cui tanti gruppi sono stanchi della violenza, ho sentito uno dei capi di un gruppo nei giorni scorsi e mi confermava che se ci fossero per loro alternative potrebbero deporre le armi, ma questo investimento su progetti di reinserimento e di pacificazione dal Governo non viene fatto. Anche in questo caso al Governo sembra che importi di più che la violenza non finisca, che ci siano sempre dei gruppi imputabili, per non sovvertire altri equilibri. Non bisogna usare i ribelli come capro espiatorio, ma far si che possano integrarsi e individuare vie pacifiche per sopravvivere».
Proprio quelle vie di pace in cui Attanasio credeva accordando sostegno e attenzione ai missionari e a chi si impegnava per restituire il Congo con le sue bellezze alla sua gente: «Quel seme», conclude, «che ha gettato deve essere sostenuto, il Congo di cui tutti oggi parlano non va dimenticato, e la sofferenza e la morte ogni giorno di uomini donne e bambini non deve più passare sotto silenzio».