Infodemia. Cioè epidemia di informazioni. E’ stata l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), organismo delle Nazioni Unite con sede a Ginevra, a coniare questa parola il 3 febbraio, quando ancora la minaccia del nuovo coronavirus cinese era vaga e lontana. L’Oms si preoccupava soprattutto dei social che animano il rissoso chiacchiericcio su Internet: Facebook, Instagram, Youtube, Twitter. Se si fosse diffusa una informazione troppo allarmante, temeva l’Oms, i sistemi sanitari avrebbero rischiato il collasso; al contrario, un messaggio troppo rassicurante avrebbe favorito la diffusione del virus. Intendiamoci: non che la preoccupazione e le misure anti-coronavirus non siano giustificate.
Il panico non è mai razionale e deve essere tenuto lontano come il virus. La virologa Ilaria Capua lo ha ripetuto lucidamente più volte: il contagio è pericoloso non tanto per gli effetti del virus in sé, la cui mortalità è per fortuna limitata, ma perché una saturazione dei posti letto nelle terapie intensive paralizzerebbe il sistema sanitario rendendo impossibile curare le quotidiane patologie (traumi, infarti ecc.) di solito riservate a quei reparti e ben più mortali.
In Italia l’informazione sul coronavirus (tardivamente battezzato Covid 19) ha preso una piega speciale. Il brusio della rete c’è stato, ma è rimasto un rumore di fondo rispetto alla massiccia, totalitaria, martellante, ossessiva informazione dei telegiornali in aspra competizione tra loro, subito imitati dalla carta stampata. Da qui all’assalto ai supermercati e alle farmacie per impossessarsi di inutili mascherine, amuchina e guanti di gomma come se fossero amuleti contro la nuova peste, il passo è stato breve. E’ seguita la caccia ai generi di consumo più ordinari: pasta, olio, scatolame. In parallelo, come Manzoni spiega bene nei «Promessi sposi», si sviluppavano il sospetto, la paura dell’untore, le speculazioni, le truffe, le fake news, i miti complottisti.
Via via che le misure di contenimento raggiungevano scuole, università, musei e stadi, fabbriche, abbiamo visto una frenata allarmante dell’economia, il riaccendersi dello spread e quindi degli interessi sul debito pubblico, un accapigliarsi di politici per disputarsi un voto in più, uno spettacolo di sfilacciamento generale. Fino al presidente della Regione Lombardia che indossa una improbabile mascherina davanti alle telecamere. A questo punto c’è stata una brusca sterzata ed è partita una campagna rassicurante che pochi hanno apprezzato al di fuori delle categorie danneggiate dalle misure per il contenimento dell’infezione. Persino Amadeus, reduce dai trionfi del Festival di Sanremo, è stato ingaggiato come testimonial tranquillizzante e di ‘buon senso’. Niente di peggio che emettere messaggi contraddittori. Così si è diffusa una sensazione di insicurezza di guida politica, che riguarda governo e regioni d’Italia, ma anche il prolungato silenzio dell’Unione Europea.
Che cosa c’è all’origine di tutto questo? E’ molto semplice. All’opinione pubblica non è arrivata la qualità dell’informazione scientifica sul coronavirus, che è stata buona, ma la quantità, che è stata travolgente. E la debole qualità politica. Numeri sui tamponi (eseguiti con troppa facilità) e sui loro esiti prima che fossero certificati dall’Istituto Spallanzani di Roma sono stati forniti in tempo reale come bollettini di guerra. Nei tg e nei talk show le cifre dei contagi ticchettavano inesorabili come una bomba a orologeria. Per giorni il tg de La7 diretto da un sovraeccitato Enrico Mentana ha raggiunto la durata di un’ora senza una notizia che non riguardasse il coronavirus. Gli altri telegiornali non sono stati da meno. Tutti i programmi si sono adeguati diventando monotematici, a costo di pestare l’acqua nel mortaio. Con una informazione così soffocante è chiaro che si trasmette un messaggio apocalittico.
I dati scientifici e i consigli forniti con equilibrio da Walter Ricciardi, professore di Igiene all’Università Cattolica, membro del consiglio esecutivo dell’Oms e consulente del ministero della Sanità, si sono trovati immersi in un vortice di servizi da ospedali, municipi, aeroporti, piazze deserte, supermercati con gli scaffali vuoti. La stessa sorte è toccata ai pacati ragionamenti del virologo dell’Università di Milano Fabrizio Pregliasco (messo da Lilli Gruber a dibattere con Vittorio Sgarbi… viene in mente la battuta: «Scusi, lei è tuttologo?». Risposta: «Anche»), di Massimo Galli, infettivologo dell’Ospedale Sacco di Milano, e di Giuseppe Ippolito, direttore dell’Istituto Spallanzani di Roma, dove in 24 ore è stato isolato il virus dei due turisti cinesi, poi guariti dopo un mese di terapia intensiva.
Niente di peggio che diffondere notizie contraddittorie. Così si è propagata la sensazione di insicurezza
Così la quantità ha vinto sulla qualità. La qualità dell’informazione scientifica ha dovuto misurarsi con la quantità travolgente dei servizi al contorno. Lo squilibrio è stato dirompente. Una buona informazione scientifica deve essere asciutta, avvalersi dell’autorevolezza e dell’esperienza. La brevità e la trasparenza sono la sua forza. L’immagine dello scienziato deve essere il suo unico veicolo. I servizi al contorno sono invece affidati a giornalisti che devono per forza costruire una notizia, farsi riprendere sul limitare della «zona rossa» accanto a una pattuglia della polizia, mostrare ambulanze a sirene spiegate. Così è inevitabile che il messaggio emotivo prevalga su quello razionale. E un presidente del Consiglio che dedica la domenica a fare il giro dei salotti televisivi, compreso quello di Barbara D’Urso, non aiuta. Se senti parlare del coronavirus dal mattino presto al tg della notte puoi solo trarne la conclusione che siamo all’apocalisse.
A infodemia ormai conclamata, abbiamo assistito alla farisaica denuncia della sproporzione tra il rischio reale e l’allarme suscitato: l’informazione si è sfacciatamente trasformata in un atto di accusa agli eccessi di informazione che l’avevano preceduta, come se i predicatori della moderazione non fossero gli stessi che avevano attizzato la paura. Intanto alcuni politici e i giornali che li fiancheggiano avevano preso la scena. Matteo Salvini un giorno predicava la collaborazione dei partiti contro il virus approvando la linea governativa, e il giorno dopo denunciava la totale inettitudine del governo invocandone le dimissioni immediate. «Libero» titolava la sua prima pagina «Prove tecniche di strage» e il giorno dopo «Diamoci una calmata», «Virus, ora si esagera».
Al di là di questa sarabanda però si intravede qualcosa di positivo. Dopo anni di ubriacatura sulla democrazia diretta e «uno vale uno», abbiamo riscoperto la competenza scientifica e il valore dell’esperto. Abbiamo visto un ministro della Salute, Roberto Speranza, seduto in ascolto al tavolo del suo ufficio con gli scienziati che gli forniscono il supporto tecnico, e da lui abbiamo ascoltato poche parole anziché esercitazioni da talk show. Se questa tendenza nella classe dirigente si consoliderà, il nostro Paese ha tutto da guadagnare.
Rimane un problema: il basso livello culturale della maggior parte della popolazione italiana nonostante una scuola dell’obbligo allineata con quella dei Paesi avanzati. Piero Angela spesso fa notare che secondo i dati Ocse l’analfabetismo funzionale del pubblico italiano raggiunge il 47 per cento, dato che per primo denunciò Tullio De Mauro, linguista eminente e per pochi mesi, nel 2000, ottimo ministro dell’Istruzione. Per analfabetismo funzionale, ricordiamolo, si intende l’incapacità di usare in modo efficace le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana, con la conseguente incapacità di comprendere, valutare e usare le informazioni diffuse nell’attuale società della comunicazione.
Se le cose stanno così, non dobbiamo stupirci che il cittadino medio poco o niente sappia di statistica, fatichi a confrontare i dati della mortalità tra la solita influenza stagionale e l’infezione da coronavirus, sposi le tesi anti-vax e non conosca la differenza tra parole come epidemia (il diffondersi di una malattia infettiva in una popolazione: per esempio ebola in Guinea, Africa) e una pandemia (la diffusione globale con alta mortalità in popolazioni diverse: il vaiolo, la «spagnola», decine di milioni di morti e mezzo miliardo di infettati nel mondo, l’asiatica, 1957, due milioni di morti).
Un paradosso del nostro tempo è che l’opinione pubblica da un lato chiede alla scienza l’onnipotenza, dall’altro ha sviluppato una diffidenza antiscientifica. Ne derivano sbandamenti che non sono solo un fenomeno italiano. Durante l’epidemia di ebola negli Stati Uniti l’informazione fu sproporzionata al rischio reale e anche allora generò una infodemia. La Smithsonian Institution riferisce che in un sondaggio Gallup del novembre 2014 gli americani classificavano l’ebola come il terzo problema di salute più urgente, peggio del cancro e delle malattie cardiache. Sull’onda di percezioni popolari sbagliate, i politici presero decisioni scientificamente immotivate aggravando l’allarme. Cerchiamo di disinnescare questo meccanismo nel caso del Covid 19. Evitiamo di arrivare a interventi della magistratura come è successo a Lodi, e a battibecchi come quello tra l’immunologo Roberto Burioni e la virologa Maria Rita Gismondo dell’Ospedale Sacco. Ne va della credibilità del nostro Paese.