Cosa fu la marcia dei quarantamila

Quarant’anni fa la «marcia dei 40 mila» (14 ottobre 1980) – Migliaia di impiegati Fiat sfilarono nel centro di Torino contro i sindacati che picchettavano Mirafiori. Fu la sconfitta dei sindacati. Ma anche l’inizio del lento distacco di Fiat da Torino

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Nel calendario di ogni città ci sono alcuni giorni segnati in rosso – o in nero. Alle feste religiose si affiancano ricorrenze civili più o meno memorabili. Milano ha le Cinque Giornate o il 12 dicembre, anniversario della strage di piazza Fontana; Parigi, naturalmente, il 14 luglio. Venezia il 12 maggio – quando Napoleone costrinse a decretare la fine della Repubblica… Per Torino ci sono i giorni di settembre 1864, quando si seppe che la capitale sarebbe stata trasferita e Firenze, la gente scese in piazza, ci furono morti e feriti. E c’è, più recente, il 14 ottobre, anniversario della «Marcia dei 40 mila». I quadri Fiat si radunarono quarant’anni fa al Teatro Nuovo e poi, in silenzio, andarono fino a piazza San Carlo. Quella camminata, così diversa, così alternativa rispetto alle manifestazioni del sindacato o della politica, segnò la fine della lunga vertenza che aveva dilaniato la città e l’Italia.

La cifra tonda cade in questi giorni del 2020 mentre se ne sono andati alcuni dei protagonisti, come Cesare Romiti (defunto in agosto) e come Luigi Arisio, morto la scorsa settimana. Arisio, che risultò come organizzatore della manifestazione, era l’uomo giusto per rappresentarsi come l’antagonista – del sindacato, dei comunisti. Baffoni alla Umberto, parlata piemontese, una vita intera dedicata alla Fiat, coronata poi da un seggio in Parlamento. Quella marcia rimane una tappa fondamentale, perché – e lo si capisce sempre meglio a distanza di tempo – segna, anche formalmente, l’inizio del distacco tra la Fiat e Torino. Recentemente su questo giornale Tom Dealessandri, allora sindacalista Cisl, ricardava che il sindacato fu spiazzato: ancora a febbraio con Fiat si parlava di piani di rilancio, nuove assunzioni; e a maggio l’annuncio degli esuberi. Il braccio di ferro fu inevitabile.

La cronaca di quella vertenza è anche il palcoscenico di uno scontro ben più ampio che si celebra nell’intero Paese, una specie di resa dei conti e riequilibrio dei poteri dopo la tragedia di Aldo Moro e la conclusione del ciclo politico dei suoi assassini. Dentro la Fiat si consuma e si conclude lo scontro fra le linee di Romiti e di Umberto Agnelli – cioè tra chi intende costruire una multinazionale «finanziaria» e chi intende rimanere fedele a una vocazione essenzialmente produttiva. Enrico Berlinguer viene a campiere una visita storica ai cancelli di Mirafiori; vengono i capi delle centrali sindacali e il sindaco comunista di Torino Diego Novelli. Ma la sensazione è che l’allungarsi della vertenza finisca comunque per indebolire il sindacato, sia al suo interno sia nell’opinione pubblica. In quei 35 giorni, per altro, anche il sindacato paga le proprie debolezze interne, alcune vicinanze pericolose alle aree dell’antagonismo e soprattutto il cambiamento dell’intero mondo delle produzioni. Il crescente spazio che sta guadagnando l’automazione pone il sindacato – non solo a Torino ma in tutto il mondo – nella posizione scomoda di inseguire un «progresso» in cui i lavoratori dispongono sempre meno di strumenti di controllo e di pressione. Gli anni successivi mostreranno senza alcuna pietà come dietro la facciata della «crisi di rappresentanza» ci siano questioni ben diverse e più pesanti.

Torino rimane sullo sfondo, ben lontana dall’intuire la profondità del cambiamento che quei 35 giorni imporranno. Nel 1980 la presenza Fiat in città è tale da informare ancora in modo decisivo tanto i ritmi quanto l’intera progettazione (urbanistica, culturale) dell’area subalpina. Arnaldo Bagnasco, in «Chi ha fermato Torino?» ricorda come fin dalla fine degli anni ’50 l’80 per cento delle attività industriali torinesi ruotasse intorno all’automobile. E la Fiat di quei tempi non era solo fabbrica ma «mamma»: con le case Fiat, la mutua Fiat, le scuole Fiat di avviamento professionale. E (fino a metà degli anni ’60) i pellegrinaggi targati Fiat a Lourdes…

La progressiva scomparsa della fabbrica e le ricadute sull’intera compagine torinese sono diventati il tema di questi 40 anni, nel dibattito subalpino. Perché ci si è accorti che quel vuoto, creatosi per erosione poco alla volta, non veniva colmato. Né sul piano della «sostituzione» di una tipologia industriale con un’altra o altre; né, e forse soprattutto, sul piano della «classe dirigente», di quel ceto difficilmente definibile che attraversa la politica, l’industria, le università, il commercio, la finanza e che costituisce un tessuto connettivo forte, riferimento naturale per qualunque progetto di città (tanto più di metropoli). Attenzione, il tema è sempre stato avvertito come strategico dagli amministratori. Lungo i mandati più duraturi non c’è sindaco che non abbia pensato e tentato di costruire un «progetto internazionale» per l’area subalpina – progetto che non fosse fondato soltanto sulla presenza di Fiat e dell’automotive. Da Peyron a Novelli, da Castellani fino ad Appendino c’è sempre stato un «laboratorio Torino» aperto: segno, almeno questo, della consapevolezza di un problema centrale.

C’è poi la geremiade sulle cose che Torino ha concepito, realizzato e perduto: dalla capitale al cinema al cioccolato, dalla moda all’industria dell’abbigliamento… Ma, al di là delle singole valutazioni politiche economiche e storiche, queste presenze possono essere viste anche come segni di una diversificazione culturale e produttiva che esisteva, ma che non è riuscita a crescere, affermarsi e stabilizzarsi. E più ci si avvicina all’oggi più è facile accorgersi di come l’ordine internazionale stia imponendo una «specializzazione» che, a partire dalle metropoli, non consente eccezioni di rilievo. Il bacino della Valle del Po ha già la sua metropoli, da almeno 17 secoli (Con l’eccezione storica di Venezia, per altro conclusasi da oltre 200 anni). Si tratta, piuttosto, di capire come integrarsi nelle funzioni, e quali siano i margini di «autonomia» per un’area che, come quella torinese, è sempre sulla soglia di una «dimensione critica» per la quale è difficile trovare riferimenti, paragoni e paradigmi. Il «modello Torino» si fondava, prima dell’automobile, sulla capitale amministrativa, sul centro direzionale: esercito, ministeri, diplomazia, finanza anche. Poi l’automobile ha continuato la consuetudine della «caserma»: ma quei cicli sono comunque finiti, superati dalla storia. Ed è rimasto, invece, il problema di un «vuoto di pensiero», di una classe dirigente che non è mai maturata o non ha saputo trovare sufficienti occasioni per elaborare una «cultura di progetto» che potesse diventare anche proposta urbanistica e politica. Le osservazioni di Berta, Pichierri e Bagnasco nel già citato «Chi ha fermato Torino» ci pare vadano esattamente in questa direzione; e non si tratta, ovviamente, di «dare la colpa» a questo o quello. Però ci sarebbe lavoro, per i sociologi e gli urbanisti, i politologi e gli storici, per provare a raccontare questa parabola – partendo dal fondo, cioè dal declino dell’oggi, che è ormai fuori discussione, in attesa di un nuovo ruolo ancora da inventare.

La scomparsa di quel primato subalpino collegato alle molteplici ricchezze della monocultura industriale ha progressivamente diluito anche la diversità di Torino. Umberto Eco ricordava l’aforisma: «Se non ci fosse Torino l’Italia sarebbe diversa; ma se non ci fosse l’Italia Torino sarebbe la stessa». Da molti anni non è più così. Forse, più che pensare alla «invenzione» di un nuovo progetto meriterebbe ragionare meglio sulla fine delle diversità. Oggi Torino è appiattita, come tante altre realtà urbane d’Occidente, su un modello pericoloso, quello delle «due città». Modello che è urbanistico ma anche culturale e politico, come ha ricordato l’autorevole Dario Di Vico («La società dei confini», «Corriere della sera», 28 settembre 2020). Per altro l’arcivescovo di Torino ha puntato da tempo il dito sui rischi delle due città che non si incontrano. Se le élite non riescono a vedere ciò che accade fuori dai perimetri delle ZTL, cioè delle aree dove le condizioni di vita sono ottimali, difficilmente riusciranno a riconoscere i problemi, e dunque a maturare soluzioni per un rilancio che – è evidente – non può che partire dall’inclusione, e dall’attenzione alla dignità di tutti.

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