«’Hai tanta paura del passato?’. ’Non si tratta del passato. È che non posso più tollerare l’odore di questa città. Muore, torna ad essere fango (…) Ma è proprio questo che la fa bella: muore’». Tony Musante lo dichiara a Florinda Bolkan nel film «Anonimo veneziano» (1970) tratto dal libro di Giuseppe Berto. È l’immagine di Venezia che avevano i turisti e i benefattori anglosassoni e che li spingeva a cercare, appassionatamente, romanticamente, questa città. È la stessa immagine maturata nella «Morte a Venezia» di Thomas Mann: un luogo che chiama il disfacimento, fisico e morale insieme.
Un’idea falsa. I veneziani sono abituati fin dall’inizio a combattere con le acque. Prima ancora di Venezia i popoli più antichi, poi i romani e i bizantini affrontarono il sistema lagunare, da Grado a Chioggia, per governarlo e mantenerlo abitabile. Certo: il disastro di oggi è reso ancor più grave dal fallimento delle tecnologie (e delle istituzioni) nell’affrontare quei problemi che la modernità pone a tutti gli ambienti del pianeta. Ma, come accade sempre più sovente, siamo abituati a piangere a comando. E dimenticare subito dopo, senza mai entrare nel «mistero» della città e della sua storia.
Ciò che da molto tempo rende unica Venezia è il suo potere di evocare immagini, costruire «storie» capaci di entrare immediatamente in circuito nelle nostre vite. Lo dice Josif Brodskij: «Acqua è uguale a tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d’acqua, serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta».
La gloria di Venezia tocca il suo culmine negli ultimi decenni del XV secolo; e inizia a decadere subito dopo, per due ragioni concomitanti: nel 1492 quando Cristoforo Colombo («in quanto genovese») scoprì l’America; e quando, nel 1508, l’intera Europa, spaventata dalla potenza della Serenissima, costituì la Lega di Cambrai, che le inflisse pesanti sconfitte militari anche se poi, con la diplomazia, Venezia riuscì a mantenere quasi integri i propri confini di terra. La Repubblica non aveva mai costruito navi capaci di attraversare l’Atlantico: il suo campo d’azione fu sempre il Mediterraneo orientale, lungo le coste dell’Adriatico, dello Jonio e dell’Egeo fino a Cipro e Costantinopoli. E i suoi interessi più profondi non erano legati a grandi espansioni territoriali: le guerre continue col Papato, i francesi, gli imperiali riguardano l’area di «contenimento» dei nemici ai confini: il Po a Sud, l’Adda a Ovest… E lo «Stato de tera» serve ad approvvigionare quel che manca in Laguna: il legname soprattutto, per le navi e le palafitte delle isole. Così come lo «Stato de mar» (le colonie mediterranee) deve garantire una linea di porti e territori sicuri per le merci che arrivano al cuore della Repubblica: quel «Dogado» che è la Laguna, anzi, la sola città di Venezia.
Ma è proprio all’inizio del declino che Venezia comincia a diventare un sogno. La città più potente e sviluppata d’Europa è tale perché ha saputo accogliere e concentrare le «nuove tecnologie» dell’epoca, a cominciare dall’arte della stampa: Aldo Manuzio ci arriva nel 1490 lasciando Roma e Firenze, e impianta la sua tipografia, creando, grazie anche all’eredità in volumi del cardinale Bessarione, il più importante centro per lo studio dei classici. Anche il Ghetto, che ha compiuto 500 anni nel 2016, va letto come rifugio per gli ebrei costretti a scappare dal resto d’Europa (e in particolare dalla Spagna). La storia shakespeariana di Shylock la dice lunga sui rapporti che, in una città di mercanti, intercorrevano fra ebrei e cristiani, ben diversamente da chi oggi, in nome di un demenziale politically correct, vorrebbe riscriverne il finale…
Non solo tipografi, non solo ebrei. A Venezia arrivano, fra i molti altri, persino gli armeni, che a San Lazzaro trovarono rifugio e che oggi custodiscono 170 mila volumi e 4.500 manoscritti… «Investimenti» tutti che si aggiungono alla «scienza dell’acqua» che i veneziani hanno coltivato da sempre, affiancando all’ingegneria fluviale e marina il vasto indotto dell’armamento delle navi. Già Dante lo dava come un esempio noto: «Quale ne l’arzanà de’ Viniziani / bolle l’inverno la tenace pece / a rimpalmare i legni lor non sani» (Inferno XXI, 7-9).
Al cuore del sogno ci sono i quadri. Il Rinascimento più conosciuto si incentra su Roma e sulla Toscana, giustamente: ma così mette un po’ in ombra quanto accade nel resto d’Italia: come a Parma col Correggio. O come a Venezia dove Mantegna e i Bellini, Tiziano e Tintoretto sono a capo delle «start up» capaci di rifornire di immaginario l’Europa intera. È di Tiziano il Carlo V a cavallo del Prado, e l’Assunta dei Frari; sono dei Bellini certe Madonne indimenticabili. Tintoretto è sepolto, nella chiesa della Madonna dell’Orto, vicino al suo ultimo lavoro, la Presentazione di Maria al Tempio. È l’intero contesto della città, la ricchezza dei commerci e la raffinatezza delle relazioni a rendere possibile questa fioritura. A Venezia non c’è il Papa, o i Medici, o gli Sforza, ma un’intera classe aristocratica e mercantile selezionata rigidamente, e tenuta insieme anche dalle necessità di difendere i propri affari e dunque la Repubblica. Il sistema delle «Scuole Grandi» (San Marco, San Giovanni Evangelista, Carmini, San Rocco…) è lo snodo fondamentale per collegare mercato dell’arte, interessi commerciali e diplomazia.
La grande stagione culturale veneziana è resa inimitabile dall’Oriente; tutte le narrazioni di fondazione della Repubblica passano di lì, a cominciare dal recupero delle reliquie di san Marco ad Alessandria d’Egitto. Venezia, con Lisbona, è l’unica diocesi d’Occidente a essere guidata non da un vescovo o arcivescovo ma da un patriarca: e la differenza non è solo nell’attributo ma nella storia. L’influenza bizantina segna anche le stagioni toscane e lombarde all’epoca di Giotto, ma solo qui lascia il sigillo permanente di San Marco e del Palazzo Ducale. Tre secoli prima della Sistina la storia del mondo è raccontata nell’oro dei mosaici di quella basilica che, fino al 1807, non è la cattedrale ma la «cappella privata» del Doge. E prima ancora di San Marco è a Torcello che si incontra l’origine di questa avventura unica dell’incontro fra i due «polmoni d’Europa». Il mosaico del Giudizio Universale ha mille anni; racconta la stessa storia della Sistina, evidentemente. Ma i modi della narrazione rispecchiano tutt’altro, a cominciare dalla presenza dell’«Anticristo», il bambino dall’aria truce che siede in braccio a Satana… Torcello, grandiosa e poi abbandonata proprio a causa della vittoria delle acque, è forse il paradigma migliore, certo non l’unico, con cui avvicinarsi alla città.
Oggi si parla di «soft power» per indicare la capacità di attrazione che una città riesce a creare per richiamare energie, denaro, intelligenze; e redistribuire una certa visione del mondo: per Venezia è roba vecchia, un mestiere che fa da 500 anni. In nome di quel mestiere si cerca di contenere lo sguaiato turismo di oggi e di sopportare, magari con un sommesso sbadiglio, i figli e i nipoti dei «Grand Tour» anglosassoni capaci di impazzire, nei musei e nelle aste, per Canaletto e Guardi. Il dramma caso mai è un altro: «Il problema sta in noi veneziani. Perché per noi tutto quello che si trova al di là delle acque salse, da Chiasso a New York, non è niente. O quasi niente» (Giuseppe Gullino, «La grandeur di Padova che Venezia temeva», «Corriere della Sera», 14 aprile 2011).
Fruttero e Lucentini avevano capito tutto e ci avevano scritto un libro inimitabile, una guida romantica che tiene lontani tanto dai giapponesi quanto dalle zitelle inglesi. È la Venezia visitata dal giramondo per definizione, l’Ebreo errante… Se questa città è la testimone dell’infiltrazione, dell’irruzione, dell’immaginario nella storia il protagonista non può essere che il Marco Polo di Italo Calvino: «Di là l’uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante…», riprendeva a dire Marco, e a enumerare nomi e costumi e commerci d’un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui di arrendersi. Era quasi l’alba quando disse: «Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco». «Ne resta una di cui non parli mai». Marco Polo chinò il capo. «Venezia», disse il Khan. Marco sorrise. «E di che altro credevi che ti parlassi?» («Le città invisibili»).