Nell’80° della morte (1939-2019) l’urna con le spoglie del beato Francesco Paleari, sacerdote cottolenghino, ha compiuto una «peregrinatio» a Pogliano Milanese, città natale. Alle celebrazioni hanno preso parte don Carmine Arice, padre generale del Cottolengo, e mons. Mario Delpini, Arcivescovo di Milano.
A chi faceva rilevare al piccolo prete del Cottolengo la somiglianza con il fondatore della Piccola Casa della Divina Provvidenza, don Francesco Paleari rispondeva con semplicità disarmante: «È mio padre». Il Cottolengo era «il canonico buono»; di lui, suo figlio, la gente diceva: «È il prete che sorride». Un sorriso inconfondibile, mite, accattivante, segno di una bontà che lo faceva amare da tutti. Il 17 settembre 2011 don Franceschino è proclamato beato, il primo beato della Piccola Casa, oltre al fondatore, in due secoli di vita. Come mai? Perché fino al 1947 vigeva la regola che i soldi andavano alla povera gente e non per le cause di beatificazione di sacerdoti, suore e fratelli.
Francesco nasce a Pogliano Milanese il 22 ottobre 1863 da Angelo e Serafina Oldani, contadini poveri che lavorano sodo, con serenità e fiducia in Dio per allevare i cinque figli rimasti degli otto nati: la mortalità infantile mieteva vittime in tutte le famiglie. Sereno e ben disposto verso tutti, non litiga con gli amichetti. «Franceschino» perché non cresce molto e anche da adulto sarà piccolo ed esile: nella visita militare a Gallarate nel 1883 è riformato per insufficienza toracica e bassa statura.
Il parroco di Pogliano scorge in lui la vocazione e per superare l’indigenza della famiglia scrive alla «Piccola Casa» perché il Cottolengo aveva fondato numerose famiglie religiose e un Seminario dove la retta minima consentiva di studiare e diventare sacerdoti, scegliendo poi se restare o passare nel clero diocesano: erano i «Tommasini» sotto la protezione di San Tommaso d’Aquino. Padre Luigi Anglesio, primo successore del Cottolengo, lo accoglie e l’8 gennaio 1877 inizia la preparazione al sacerdozio con scrupolo, zelo e impegno. Iscritto al Terz’Ordine Francescano, è ordinato sacerdote dal cardinale arcivescovo Gaetano Alimonda il 18 settembre 1886 ad appena 22 anni e con dispensa di 13 mesi e 5 giorni. Decide di restare alla Piccola Casa nella «Congregazione dei preti secolari della Santissima Trinità» fondata dal Cottolengo, «i cui pensieri – sostiene il fondatore – unicamente siano: lavorare in mezzo ai poveri e sacrificare per loro beni, libertà, riposo e vita» secondo la massima «Caritas Christi urget nos». Sacerdote diocesano di Torino e non religioso perché allora erano incardinati a Torino e non formavano una Congregazione religiosa, che nasce nel 1969.
Per 53 anni è maestro e predicatore, confessore e direttore spirituale. Insegna molte materie – italiano, geografia, latino, storia e filosofia – ai chierici della Piccola Casa e dei Missionari della Consolata, fondati dal beato Giuseppe Allamano, del quale è amico e consigliere. Testimoniano gli ex allievi: «Aveva il culto della scuola e per lui la cattedra era altare e pulpito. Era puntuale, amabile, prudente, equilibrato ed esigente. Esigeva e otteneva attenzione, puntualità, compostezza e profitto».
Don Ascanio Savio, rettore del Seminario del Regio Parco, chiede al padre della Piccola Casa di dargli un sacerdote come confessore dei chierici. Il canonico Bartolomeo Roetti risponde: «Verrà un sacerdote giovane e piccolo che è un altro San Luigi». Dal 1892, non ancora trentenne, confessa i chierici e dal 1906 per un quarantennio è direttore spirituale del Seminario. Predica ritiri ed esercizi ai preti, ai chierici, ai religiosi, alle religiose, ai laici: «Predicava con tutto il comportamento della persona e l’uditorio era conquistato dal suo modo di comportarsi ed era avvinto dall’edificazione che dava».
Significativa la relazione a Roma nel maggio 1926 di mons. Goffredo Zaccherini, visitatore apostolico nel Seminario metropolitano: «Direttore spirituale del Seminario è don Francesco Paleari della Piccola Casa, uomo tutto di Dio che accoppia alla santità della vita una dottrina e una prudenza non comuni. Gode la fiducia di tutta la diocesi, un affetto e una stima illimitata dei chierici. È una vera provvidenza per il Seminario perché in tanta deficienza di veri superiori è l’angelo che forma i chierici nel vero spirito sacerdotale. Se non ci fosse, il Seminario sarebbe un’accozzaglia di giovani indisciplinati e senza la minima formazione sacerdotale».
A fine Ottocento-inizio Novecento tenta di insinuarsi nel Seminario il modernismo, insieme di opinioni devianti su Sacra Scrittura, rivelazione e dogma, Cristo, Chiesa, Sacramenti e condannate dal Sant’Uffizio («Lamentabili», 3 luglio 1907) e da Pio X («Pascendi», 8 settembre 1907. Don Roberto Provera, studioso cottolenghino, riporta l’opinione di mons. Giacomo Fortina, tommasino e poi cancelliere di Pontremoli: «È l’equilibrio di Paleari che, senza vane paure e inutile chiasso, fermò, disorientò e vinse il modernismo. Aveva subito misurato le esagerazioni degli antimodernisti. Consultato, diceva schiettamente: il tale libro e il tale autore non insegnano errori. Quando però il libro poteva dar luogo ad ambiguità, consigliava altri volumi più sicuri quanto ad ortodossia. I suoi giudizi uscivano da una mente dotta ed equilibrata. Si aveva l’impressione che il maestro non potesse sbagliare per le sue conoscenze teologiche, filosofiche e storiche. In breve non si sentì più parlare né di modernismo né di antimodernismo nel Seminario e nel giovane clero».
Don Giuseppe Tuninetti, storico della Chiesa, nel monumentale «I Seminari diocesani di Torino» osserva: «Tra i superiori la persona più prestigiosa e benefica è senza alcun dubbio il cottolenghino Francesco Paleari, da tutti riconosciuto fulcro di stabilità e punto di riferimento sicuro . Dalla sua cameretta esercitava il ministero di confessore e direttore spirituale di chierici e preti; si distingueva per il sorriso, segno di accoglienza paterna. In lui si ripresentò la caratteristica più bella di quell’impareggiabile formatore di preti che fu San Giuseppe Cafasso al Convitto ecclesiastico di San Francesco d’Assisi. Come Cafasso, Paleari non era una figura prestante: la sua superlativa prestanza era morale e spirituale e colpiva tutti».
Scrive il biografo don Ettore Bechis («Il canonico Francesco Paleari, prete della SS. Trinità del Cottolengo, direttore spirituale del Seminario Metropolitano, provicario della diocesi torinese», Alzani, Pinerolo, 1961), che lo aveva conosciuto come penitente: «Dire del suo metodo nella direzione spirituale è scoprire tutto di lui perché don Paleari non era altro nel colloquio intimo, nella conversazione occasionale e nelle relazioni. Egli semplificava tutto, rendeva facile e gradita la virtù, Non secondava le crisi né le perplessità giovanili, ma con il suo dominio spirituale le spazzava via come nubi al vento. Ascoltava attento, mai crucciato: un sorriso di benevolenza paterna accoglieva qualunque dubbio, qualunque rivelazione, ogni proposito. L’interlocutore nel suo volto scopriva l’imperturbabile serenità di Dio».
Esaminatore nei Seminari; revisore delegato per l’«imprimatur» alle pubblicazioni; esaminatore prosinodale nei concorsi per le parrocchie; consultore per la destinazione dei parroci, il 3 novembre 1931 l’arcivescovo Fossati nomina don Luigi Coccolo vicario generale e don Paleari pro-vicario generale e il 4 novembre vicario moniale. Fossati si confessava da lui quando fece il militare a Torino: «Ho valutato alla luce di Dio e sulla base della rettitudine, idoneità, fedeltà ed esperienza del prescelto. La sua nomina fu una festa per il clero e le religiose, fu un consenso di cuori attorno a un santo». Padre Anastasio Ballestrero, giovane sacerdote, futuro cardinale arcivescovo di Torino, confessa le carmelitane e ne approfitta per confessarsi da Paleari: «Ho appreso una giaculatoria che non dimenticai più: “Domine, doce me esse furbum. Signore, insegnami a essere furbo”». Celebre un’altra sua massima: «Prontezza nel cominciare, pazienza nel continuare, perseveranza nel terminare».
Uomo buono e sorridente, il suo sguardo inconfondibile è il segno della sua bontà, che lo fa amare da tutti. Con una calma inalterabile smaltisce una mole incredibile di mansioni: lavori ingrati, impegni straordinari, pesi gravosi e servizi ne incrinano la salute. Nel 1936 le crisi cardiache lo costringono all’inattività: «Dobbiamo essere nelle mani di Dio, come una palla nelle mani di un bambino che gioca. Quanto più forte la palla viene buttata a terra, tanto più rimbalza in alto». Tre anni di sofferenza nella sua stanzetta: «La Croce prima è amarissima, poi amara, poi dolce e infine rapisce in estasi. Il Signore ci manda le sofferenze per tre p: per pena, prova, premio».
Muore il 7 maggio 1939. Per due giorni è un’incessante processione alla sua salma esposta nell’atrio della Piccola Casa. Ai funerali affluiscono molti ex allievi, vescovi e sacerdoti, popolane e professionisti, giovani e tanti poveri. Il 6 maggio 1946 la salma è tumulata vicino a quella del fondatore. L’11 giugno 1947 si apre il processo diocesano che nel 1979 approda alla Congregazione vaticana. Il 6 aprile 1998 il decreto sulle virtù ed è «venerabile». Il 17 settembre 2011, nella chiesa dei Santi Vincenzo de’ Paoli e Antonio abate in via Cottolengo 14 a Torino, il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione dei santi, lo dichiara beato. Il 18 all’Angelus Benedetto XVI dice: «Nato da una famiglia umile e contadina, si dedicò ai poveri e ai malati e all’insegnamento, distinguendosi per la affabilità e pazienza. Rendiamo lode a Dio per questo luminoso testimone del suo amore».
