Covid e lavoro, la Chiesa torinese lancia un mese di dibattiti

Ciclo di appuntamenti on line – Sul sito della Pastorale del Lavoro tutti gli incontri dedicati alle sfide aperte dalla pandemia e all’emergenza occupazione. Intervista al direttore della Pastorale Sociale e del Lavoro Alessandro Svaluto Ferro. LOCANDINA

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Un mese di incontri e di spunti (il calendario nel box a fianco)  per riflettere sul tema del lavoro che in un anno di pandemia ha messo in ginocchio migliaia di famiglie: così l’Ufficio di pastorale sociale e del lavoro della diocesi, anche in concomitanza con l’anno speciale dedicato a san Giuseppe, intende approfondire la trasformazione in atto a cui nei prossimi numeri dedicheremo altre pagine. Ne parliamo con il direttore dell’Ufficio Alessandro Svaluto Ferro.

Alessandro Svaluto Ferro

Direttore, cosa significa celebrare quest’anno la Festa dei lavoratori nell’anno che Papa Francesco ha dedicato a san Giuseppe e in una congiuntura in cui la pandemia sta mettendo a dura prova il mondo  del lavoro, soprattutto le categorie più fragili?

Significa riscoprire il senso autentico del lavoro e il suo valore più profondo nella dimensione della quotidianità. In quest’annus horribilis non abbiamo avuto solo a che fare con un incremento del dato disoccupazionale (peraltro frenato dal blocco dei licenziamenti), ma con almeno altre tre questioni. La prima: la fragilità strutturale del sistema di protezione e tutela. Il welfare italiano, in relazione al mondo del lavoro, è ancora troppo poco universalistico e contrapposto tra beneficiari di interventi (anche generosi) di welfare pubblico e altri che invece ne rimangono perennemente esclusi. In secondo luogo le modalità organizzative del lavoro sono profondamente mutate e stanno subendo una notevole accelerazione di trasformazione. E quando si corre molto velocemente si rischia di lasciare qualcuno per strada. In terzo luogo intravedo una sfida culturale: la mancanza di lavoro non è solo stata un’emergenza economica, ma anche uno svuotamento di senso. Senza poter lavorare, viene meno il senso del nostro vivere, non perché si debba promuovere la total job society, bensì perché il lavoro ricopre una dimensione vocazionale ed esistenziale. Lo ha ricordato Papa Francesco in molti interventi: con il reddito si può sopravvivere, ma con il lavoro abbiamo l’occasione di riempire di senso la nostra vita mediante la nostra opera trasformatrice. Lavorare significa essere cittadini ed esprimere la propria soggettività, le proprie capacità di essere umano. La pandemia ci costringe a ripensare il modello del lavoro e il senso che noi possiamo attribuirne.

Proprio perché il lavoro è al centro delle trasformazioni di questa epoca difficile avete deciso di dedicare un mese di riflessione declinandolo in più aspetti a partire dalla resilienza e dal  coraggio… Perchè queste sottolineature?

Da diversi anni, come Pastorale sociale e del Lavoro, stiamo monitorando il tema delle trasformazioni. L’innovazione digitale e il paradigma 4.0 (che non riguarda solo la dimensione tecnologica) ci stanno proiettando in un possibile nuovo mondo del lavoro, fatto allo stesso tempo di grandi opportunità e pericoli (come tutti i processi di cambiamento). Pensiamo che il lavoro sarà quello che siamo in grado di costruire con le nostre capacità umane; ma questa delicata transizione (e la pandemia lo ha ancora di più evidenziato) ha bisogno di essere governata e accompagnata. Tutti devono esserne protagonisti e responsabili, assumendo, in particolar modo la prospettiva di chi è tradizionalmente considerato ai margini del mercato del lavoro. Per questo, insieme ad Enti del Terzo settore, professionisti, esperti, formazione professionale, associazioni, mondo del volontariato, sindacalisti e imprenditori abbiamo avviato un percorso di ascolto, indagine, riflessione e rielaborazione di questi temi, in particolare con  gruppi di lavoro che hanno ragionato sul come le persone possano essere protagoniste e partecipi dei processi di cambiamento affinché, citando ancora  Papa Francesco, non diventino «scarti» del sistema produttivo. Siamo convinti che un’altra economia è possibile perché in parte esiste già; compito dei laici impegnati è di valorizzare queste esperienze e farle diventare «sistema».

La resilienza poi, parola che rischia oggi di essere abusata e quindi squalificata, è un costrutto che ci aiuta a restituire dignità alle persone, rimettendo al centro le sue abilità e capacità. Con il percorso avviato abbiamo voluto affermare che le persone con disabilità, i migranti, i giovani e le donne sono un’opportunità per il mondo del lavoro in quanto persone che esprimono risorse e capacitazioni. La resilienza, qualità da coltivare in tutta la carriera professionale (oltre che personale) restituisce protagonismo stesso alle persone, evitando di scadere in schemi assistenziali, che oltre a creare passività, non riconoscono il valore stesso che ognuno di noi porta come contributo personale allo sviluppo della società. Sviluppare la qualità della resilienza nelle persone (e nelle organizzazioni) è oggi essenziale: gli eventi avversi e le trasformazioni rendono la nostra esistenza sempre più incerta e flessibile; per questo è importante coltivarla in un contesto comunitario, ovvero dove ciascuno sente la responsabilità di ciò che capita a colui che sta al mio fianco.

E  poi ci vuole coraggio… Certo, oggi per dire che tutte le persone valgono e che tutti hanno competenze da poter sviluppare. Spesso sono nascoste e bisogna aiutare le persone stesse a riscoprirle. Per i credenti questo tema ha una valenza e un legame specifico con la fede: se ogni persona è a immagine e somiglianza di Dio, dobbiamo davvero credere che ognuno di noi ha un suo valore e può portare un suo contributo di capacità attraverso il lavoro che svolge.

Tra le trasformazioni che ha portato la pandemia all’organizzazione del lavoro per circa 6 milioni di italiani c’è l’introduzione dello smart working che ha coinvolto anche la scuola: voi dedicate una mattinata di riflessione al tema. Quali i rischi e quali i vantaggi?

Chiariamo due aspetti. Il primo: ciò che abbiamo vissuto in quest’ anno più che smart working è assimilabile al lavoro da casa (o remote working). Il lavoro agile (o anche intelligente) avrà bisogno di una stabilizzazione e di una revisione dentro lo scenario post-pandemico per essere autenticamente valutato. Il secondo: non tutti hanno avuto la possibilità di svolgere il proprio lavoro in modalità a distanza perché non è applicabile a tutte le professionalità. Anche questa opportunità ha quindi creato una cesura tra coloro che ne hanno potuto usufruire e coloro che, per ragioni intrinseche al proprio lavoro, non hanno avuto la possibilità di accedervi. Tuttavia per milioni d’italiani è stata un’ancora di salvezza perché ha permesso loro di continuare a lavorare, viceversa si rischiava un ampliamento della platea dei disoccupati o dei cassaintegrati: pertanto in questo dannato anno pandemico lo smart working è stato certamente una sorta di ammortizzatore sociale attivo!

Guardando invece alla prospettiva credo che il vantaggio principale di questa nuova modalità organizzativa sia quello di cambiare profilo culturale del lavoro: non si lavora più per ore, non esiste più un controllo diretto e operato dal datore di lavoro, ma per obiettivi, dando autonomia, fiducia e responsabilità al lavoratore stesso.  Ma ci sono anche potenziali rischi: lo smart working accelera il processo di mescolanza tra dimensione personale e lavorativa, facendo sparire quella tradizionale ripartizione della giornata e suddivisione dei tempi di vita con quelli del lavoro. Lo smart working, per dirla con un concetto semplice, decreta la morte definitiva del modello fordista anche sotto il profilo organizzativo.

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