Don Kresimir Puljic, croato, per tutti don Kreso, è parroco dal 2010 a San Tommaso Apostolo a Mostar, in Bosnia-Erzegovina, una nuova chiesa a sud di una delle città simbolo della guerra – tutti ricordiamo il ponte ottomano del XVI secolo distrutto dai bombardamenti che dal 1991 al 1995 infiammarono i Balcani. Avevamo incontrato don Kreso 25 anni fa, in Bosnia-Erzegovina, quando la Caritas torinese avviò un gemellaggio con la diocesi di Mostar per sostenere la popolazione messa in ginocchio dalla guerra civile. Nei difficili anni del conflitto don Puljic dirigeva la Caritas della diocesi: un legame con Torino che non si è mai interrotto e che prosegue grazie al sostegno dell’Associazione Maria Madre della Provvidenza che ha ospitato nei giorni scorsi don Kreso nella sede dell’Istituto Madre Mazzarello, dove l’abbiamo intervistato.
Don Puljic, lei ha diretto la Caritas negli anni drammatici della guerra, oggi è parroco di una comunità sorta sulle macerie del conflitto. Cosa è cambiato da allora nella sua città?
Al termine della guerra noi tutti eravamo convinti che avremmo voltato pagina, che la situazione sarebbe migliorata. Ma non abbiamo considerato che la distruzione e le ferite che la guerra ha creato nei cuori delle persone sono più profonde di quelle materiali. La guerra ha distrutto ciò che si è costruito in 50 anni di convivenza tra popoli diversi e dopo si fa fatica a ricomporre, a cambiare mentalità, a ricominciare a vivere nel rispetto delle diversità. Abbiamo ricostruito gli edifici, ma adesso è il momento di ricostruire i cuori. Questo è il grande compito della diocesi di Mostar e questo è il mio impegno di parroco di una comunità giovane. Oggi abbiamo due generazioni cresciute dopo la guerra: ogni giorno, con pazienza, cerchiamo di educare questi figli per preservarli dalla corruzione, dalla criminalità, dalla droga che dilaga. Con la catechesi nelle nostre scuole, nelle parrocchie e nei gruppi educhiamo i bambini e i giovani ai valori cristiani indicando che ci sono due modi di vivere: il nostro è indicato dal Vangelo ma non è facile.
I cattolici in Bosnia-Erzegovina, come ci ha detto mons. Pero Sudar, arcivescovo di Sarajevo (leggi l’intervista), sono una minoranza: come cercate di convivere con le altre religioni?
La convivenza, come ripetono i nostri Vescovi, è l’unica strada che possiamo percorrere se vogliamo avere futuro: vivere insieme agli altri, questo è cristianesimo. Gesù è venuto per aprirci la strada verso suo Padre, il prossimo, il bene comune, il rispetto di noi stessi. Se noi non costruiamo questa armonia non possiamo costruire la pace. Le organizzazioni umanitarie straniere che vengono da noi parlano di una pace astratta, parlano di convivenza, non conoscendo le nostre ferite. Tante parole che aprono ancora di più le piaghe anziché guarirle.
Di che cosa avete bisogno?
Quando ci viene detto che abbiamo bisogno di pace io rispondo che non possiamo parlare di pace senza la giustizia. Giustizia e pace vanno insieme. Stiamo assistendo ad un esodo dei cattolici dalla Bosnia-Erzegovina perché non c’è solo corruzione, criminalità, povertà, ma perché viviamo una situazione di ingiustizia. Da noi i musulmani sono la maggioranza e vogliono creare uno Stato islamico, non uno Stato delle tre nazioni, serbi, croati e musulmani, come stabilirono gli accordi di Dayton del 1995, poi stravolti dall’Alto Commissariato dell’Onu. Oggi assistiamo ad una islamizzazione della Bosnia con una politica aggressiva che sta soffocando i cattolici.
E quindi è difficile parlare di pace in questo contesto…
Se per pace intendiamo assenza di guerra possiamo fare tante parole, ma se per pace intendiamo giustizia ed equità per tutti allora in Bosnia-Erzegovina non c’è pace. Dove la gente tace non c’è pace e la nostra gente tace perché non si può cambiare nulla, non c’è futuro e allora tanti, soprattutto giovani, se ne vanno. Nei Balcani stiamo vivendo una seconda guerra, che io chiamo «dell’esodo», che spinge i giovani cattolici ad emigrare in Irlanda, Germania, Canada, Australia, dove possono non solo trovare lavoro ma soprattutto pace, giustizia, dove possono progettare un futuro. Nel nostro Paese siamo costretti a concentrarci solo sul pane quotidiano e la preoccupazione per il sostentamento non ci lascia né tempo né energia per la cultura, per la spiritualità. Si è costretti solo a lavorare sottopagati: per questo i giovani ci lasciano.
Cosa vi fa più paura?
Nel nostro Paese si sta avverando ciò che scriveva nel 2004 Oriana Fallaci nel libro «La forza della ragione», anticipando che la Bosnia-Erzegovina sarebbe diventata l’epicentro per l’islamizzazione dell’Europa. Da noi gli sceicchi arabi comprano terreni, perché il governo musulmano glielo permette. Noi abbiamo paura non solo di essere minoranza religiosa, ma dell’invasione degli arabi che, non riuscendo a penetrare in Europa occidentale, si fermano in Bosnia. Nessuno ne parla nei media occidentali ma temiamo che la Bosnia-Erzegovina diventi uno Stato musulmano: nei Balcani da una parte arrivano migliaia di poveri migranti musulmani e dall’altra gli arabi ricchi fondano nuove città satelliti attorno a Sarajevo. Attualmente ci sono 40mila arabi registrati che vivono a Sarajevo su 400 mila abitanti. Nel nostro Paese è in atto non solo una islamizzazione, ma una arabizzazione, una turchizzazione. Mostar è rimasta l’unica città in Bosnia-Erzegovina dove i cattolici croati sono in maggioranza. In tutte le altre città siamo una piccola minoranza: i cattolici croati in Bosnia-Erzegovina sono circa 380mila, anche se le statistiche ufficiali dicono 420mila, su circa 3 milioni e mezzo di abitanti. E a Mostar siamo poco più di 40mila cattolici, mentre i musulmani sono 35-36mila, ma gli investitori arabi stanno costruendo un quartiere nuovo a nord della città dove andranno ad abitare 7 mila persone. E a breve i musulmani diventeranno maggioranza anche a Mostar.
La Chiesa cattolica di Mostar come può convincere i giovani a non lasciare la propria terra?
È difficile convincere i giovani a rimanere in un Paese dove non possono realizzare la propria vita: purtroppo noi come Chiesa siamo limitati non abbiamo più il sostegno di tante diocesi come Torino che, durante la guerra, ci hanno letteralmente sfamati. Oggi continuiamo ad avere fame di pane ma abbiamo anche fame spirituale, fame di democrazia e come Chiesa dobbiamo essere luce nel buio che scoraggia i nostri giovani in un Paese dominato dalla politica musulmana. Per questo vi chiediamo di parlare di noi, di pregare per noi perché abbiamo bisogno di non sentirci soli. Il mio apostolato di parroco è dunque cercare di incoraggiare i tanti giovani parrocchiani lavorando in tre ambiti: spirituale e pastorale, con la costruzione della chiesa nuova perché per al momento siamo in un magazzino; culturale e spirituale per preservare la nostra identità; infine sociale, perché la nostra comunità è molto povera. In questi giorni con gli amici dell’associazione Maria Madre della Provvidenza, la Caritas e il Sermig di Torino abbiamo progettato di costruire nella mia parrocchia una cucina dove possiamo offrire pasti ai bambini poveri, avviare corsi di cucina per aiutare i ragazzi a trovare lavoro e preparare pasti per persone senza fissa dimora. Ci proviamo, grazie al vostro aiuto. L’alternativa è scomparire.