Festival della Dottrina Sociale, la Carta dei Valori di Torino

Documento – Un patto per una città più equa, solidale, generativa verso i poveri e le giovani generazioni. La Carta dei Valori è stata firmata, nell’ambito del Festival della Dottrina Sociale, da 21 realtà della Diocesi impegnate in ambito educativo e sociale

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La piantumazione dell'”albero della Dottrina Sociale della Chiesa” al Collegio Artigianelli dei Giuseppini del Murialdo a Torino

«Per noi cristiani, il futuro ha un nome e questo nome è ‘speranza’. La speranza è la virtù di un cuore che non si chiude nel buio, non si ferma al passato, non vivacchia nel presente, ma sa vedere il domani. Per noi cristiani cosa significa il domani? È la vita redenta, la gioia del dono dell’incontro con l’amore trinitario. In questo senso essere Chiesa significa avere lo sguardo e il cuore creativi e orientati escatologicamente senza cedere alla tentazione della nostalgia che è una vera e propria patologia spirituale».

Sono le parole che Papa Francesco ha inviato in un video messaggio che, con il saluto del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha introdotto la parte nazionale del Festival della Dottrina sociale della Chiesa sul tema «Memoria del futuro», celebrato a Verona dal 26 al 29 novembre e iniziato martedì 23 nelle diocesi della Penisola, tra cui Torino.

È stato il primo Festival senza monsignor Adriano Vincenzi, il sacerdote veronese fondatore, guida della Fondazione Toniolo, che per nove edizioni ne è stato l’animatore scomparso a 68 anni il 13 febbraio scorso. Ma è stato anche il primo non più solo veronese, come lui aspirava che ha coinvolto ben 24 città, dal Nord al Sud della Penisola che hanno portato il loro contributo riflettendo sul tema del Festival a partire dalle criticità e dai punti di forza del proprio territorio.

Al Festival, sia nella parte locale che nei lavori nazionali – che a causa dell’emergenza sanitaria si è tenuto in remoto – hanno partecipato rappresentanti del mondo degli imprenditori, dei professionisti, dell’ambito istituzionale, della cooperazione, dell’economia e della cultura.

Ad aprire i lavori un gesto simbolico: in ogni città che ha partecipato è stato piantato, martedì 23 novembre in contemporanea, un albero di melograno, simbolo della Dottrina sociale per le sue forte radici, segno del fondamento nei valori della costruzione del bene comune. A Torino l’albero è stato interrato e benedetto dall’Arcivescovo Nosiglia nel cortile del Collegio Artigianelli, uno dei luoghi simbolo dei Santi sociali torinesi, dove per trent’anni san Leonardo Murialdo accolse i ragazzi più poveri della Torino dell’Ottocento offrendo loro casa, educazione e un mestiere.

«Il nostro contributo al Festival è ‘La carta dei  valori  di  Torino  2020’», spiega Daniele Ciravegna, già Preside della Facoltà di Economia dell’Università di Torino che ha coordinato la redazione del documento (e che pubblichiamo integralmente nel sito www.vocetempo.it, ndr) dove abbiamo ripreso, a partire dal tema su cui Torino ha riflettuto in occasione del Festival e cioè ‘Comunità educanti e imprenditive: le radici torinesi della Dottrina sociale della Chiesa per alimentare il futuro’, la nostra tradizione che affonda nell’apostolato dei Santi sociali torinesi che si sono adoperati per dare un futuro ai giovani; non dimentichiamo che il primo contratto di apprendistato è stato ‘inventato’ da don Bosco l’8 febbraio 1952. Una tradizione che continua anche ai nostri giorni dove il nostro approccio è quello di non accettare principi astratti ma declinarli nella vita e nei problemi delle persone. Per questo è nostra intenzione dopo il Festival di attivare un laboratorio permanente con tutti gli attori che operano in città su questi temi e che riflettano sull’educazione e la formazione al lavoro».

Il dopo Festival, nell’intenzione degli organizzatori, è quello di far fruttare la riflessione per avviare un patto sull’educazione al lavoro. «Sarebbe uno spreco se il Festival fosse relegato tra i ricordi di qualche bella iniziativa» commenta don Danilo Magni, Giuseppino del Murialdo referente per Torino al Festival. «Con l’Ufficio diocesano di pastorale sociale e del lavoro, la Fondazione Operti, la direzione delle aggregazioni laicali diocesane, la Fondazione Centesimus Annus ed il Centro Toniolo abbiamo inteso, fin dall’inizio, il Festival come un’occasione per rinsaldare dei legami e rinnovare un impegno condiviso, dentro una nuova consapevolezza ecclesiale e sociale. Il patto che ne è scaturito nella Carta dei valori è uno stimolo a ricordarci che il frutto non è già maturo, ma che piuttosto siamo ingaggiati in un lavoro comunitario di semina e di cura dei germogli. Un lavoro di allargamento della rete e di inclusione, finalizzati a fare crescere il bene comune. Cuore, mente e mani messi generosamente a disposizione, perché la nostra città diventi più equa, solidale, generativa per i più poveri e per le giovani generazioni. Comunità di adulti, liberi da miopie ed egoismi, capaci di visione e di cooperazione. Comunità di adulti intraprendenti per trasformare l’educazione ed il lavoro, secondo nuovi paradigmi di ‘sviluppo sostenibile ed integrale’ come ci suggerisce il Papa. Le soluzioni perché il futuro ci venga incontro e diventi ‘presente’, ‘dono’, possono essere molte e avere percorsi differenti. La ‘memoria del futuro’, così come l’abbiamo intesa, ci chiede di impegnarci a proseguire il Festival, a cominciare da subito, perché ci siano frutti buoni ed abbondanti per tutti».

Coordinatore del contributo torinese è stato l’Ufficio di Pastorale sociale del lavoro diocesano che ha coinvolto tutti gli attori presenti sul territorio. «La partecipazione attiva della nostra diocesi al Festival», conclude il direttore Alessandro Svaluto Ferro, «è stata un’occasione per la comunità cristiana per fare Chiesa sui temi della Dottrina sociale che non è oggetto di riflessione e di impegno solo per chi si occupa di pastorale sociale e del lavoro ma è patrimonio di tutta la comunità cristiana. La Carta dei valori che 21 realtà della diocesi impegnate in ambito educativo e sociale hanno firmato sono l’esempio di questa volontà di camminare insieme, di costruire relazioni, come sottolineava padre Salvatore Currò, teologo giuseppino del Murialdo che abbiamo invitato a riflettere con noi: ‘La pastorale del lavoro ispirata alla dottrina sociale della Chiesa può essere terreno comune di dialogo e di impegno sia per i cristiani che per i non credenti: è il dono del Vangelo che entra in questo circolo, come cristiani siamo in cammino con tutti e il senso sociale del Vangelo ci accomuna, credenti e non. Il Vangelo ha bisogno di risuonare nelle nostre città e può risuonare laddove si costruisce umanità vera, bene comune’. Come l’impresa, una realtà in grave sofferenza: fiaccata dalla grande crisi del 2008 e schiacciata dalla pandemia. Le imprese sono il cuore pulsante del nostro sistema economico e dalle loro capacità di innovazione e sensibilità sociale bisogna ripartire. A loro va dato un messaggio di speranza e un circuito nel quale poter esprimere, insieme alle altre realtà del territorio, le proprie potenzialità, finalizzandole alla costruzione del bene comune».

X FESTIVAL DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA 

CARTA DEI VALORI DI TORINO 2020

Premessa

La scrittura della Carta dei valori – richiesta a ogni città aderente al X Festival della Dottrina sociale della Chiesa (Dsc) – mira, nella declinazione torinese, a presentare l’operare dei valori della DSC nella realtà del territorio, con riferimento alle azioni concrete e concertate fra gli attori (cristiani e non) partecipanti al Festival della Dsc di Torino – 2020.

Noi interpretiamo la Carta dei valori non nel senso di carta dei principi fondamentali della DSC né nel senso di carta dei valori conclamati come concorrenti a formare l’ambiente adeguato affinché i principi fondamentali della DSC possano affermarsi. È la Carta dei valori vissuti, che emergono dalle testimonianze dei soggetti (persone e imprese); è la declinazione dei valori della DSC alla luce della realtà del territorio torinese, con riferimento alle azioni concrete che i cristiani locali condividono e propongono a tutte le persone partecipanti al Festival e all’intera comunità nazionale.

  1. Quale destinazione tematica per l’Area torinese?

La Chiesa torinese, con la sua ricchezza di carismi e di organizzazioni sociali e la sensibilità dei vescovi che l’hanno guidata, ha sempre mantenuto nel corso dei decenni la caratteristica di essere seme e fermento della novità di Cristo. In particolare, Torino è la città dei santi sociali, protagonisti attivi dell’evangelizzazione della società, principali attori del risveglio sociale della Chiesa cattolica dell’Ottocento, antesignani della Rerum Novarum.

Torino ha una lunga tradizione industriale manifatturiera, con diverse eccellenze, che nel momento attuale è alle prese con l’esigenza di una profonda trasformazione economica e sociale. Siamo in un tempo di emergenze e di possibilità di rigenerazione, tempo sfidante e richiedente una nuova stagione di protagonismo per i cristiani impegnati nel sociale e nell’economico, con riferimento in special modo all’istruzione e al lavoro, alla luce di un modello d’impresa che faccia proprio il principio della centralità e della dignità della persona.

Rilevante obiettivo della declinazione dei valori della Dsc con riferimento al tema Istruzione-Lavoro-Impresa – quale emerge dall’azione dei soggetti (persone e istituzioni, organizzazioni, corpi intermedi operanti sul territorio) – è la scrittura della Carta dei valori di Torino – 2020.

  1. Le imprese: un mondo molto variegato

La storia dell’umanità e la realtà attuale mostrano come vi siano diversi modi per produrre beni, distribuire il prodotto all’interno dell’intera collettività e allocare i beni prodotti tra i possibili impieghi. C’è il modo di produrre qualsiasi cosa si pensi si possa vendere (e, se lo sbocco non c’è, lo si crea con la pubblicità), con chi decide – l’imprenditore – volto a realizzare, costi quel che costi, il massimo profitto (o un utile ritenuto adeguato), in un contesto prettamente autocratico. È questo il modello capitalistico, caratterizzato da alcuni elementi propri, che si ritrovano sempre, pur nelle diverse forme storiche del capitalismo ideologico. Questi elementi comuni essenziali sono: la proprietà privata dei mezzi di produzione; il mercato di libera concorrenza; la separazione fra capitale e lavoro; il proprietario del capitale svolge la funzione di combinare tra loro i fattori produttivi, razionalizzandone l’impiego, in modo da minimizzare i costi e permettere il conseguimento del massimo profitto, assumendo il rischio della conseguenza di scelte non corrette e avendo nel profitto (positivo o negativo) la remunerazione (positiva o negativa) del rischio stesso. Oppure imprese nelle quali chi decide è un senior manager non proprietario del capitale a rischio, che amministra l’impresa avendo l’incarico di realizzare il massimo profitto, ma che potrebbe anche forzare l’incarico avuto, nel senso di ottenere il massimo beneficio per se stesso.

In un’economia di mercato, è indispensabile che qualcuno – il proprietario del capitale oppure i lavoratori che accendono prestiti finanziari o leasing di beni capitali e prendono su di sé il rischio del risultato economico dell’impresa – assuma il rischio del risultato (positivo o negativo) nella differenza fra ricavi e costi. La sua mancanza bloccherebbe, per definizione, l’effettuazione dell’attività produttiva di mercato. Questo risultato è chiamato profitto, che è assunto quale indicatore di buon andamento economico dell’impresa: quando un’impresa produce profitto, significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati. Tuttavia il profitto non è l’unico indicatore delle condizioni dell’impresa. È possibile che i conti economici siano in ordine, ma che  lavoratori/lavoratrici, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’impresa, siano umiliati e offesi nella loro dignità. Oltre a essere moralmente inammissibile, ciò non può non avere riflessi negativi per l’efficienza stessa dell’impresa. In effetti un’impresa è una comunità di persone che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei propri bisogni ma, allo stesso tempo, costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera comunità. Il profitto è indicatore della vita dell’impresa, ma non è l’unico; a esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che sono almeno ugualmente essenziali per l’impresa produttrice.

Fra questi fattori, v’è la domanda di qualità: qualità dei beni prodotti (merci e servizi), qualità dell’ambiente naturale, qualità della vita in generale. In passato, l’umanità è vissuta sotto il peso della necessità: i suoi bisogni erano pochi, ma essenziali, fissati dalle caratteristiche oggettive della sua costituzione corporea e l’attività economica era orientata a soddisfarli; questo era il significato della  «domanda di qualità» in quel contesto. Ciò vale tuttora per la parte povera dell’umanità; per i paesi ricchi, la domanda di qualità è andata evolvendo verso «nuovi bisogni» e, attraverso le scelte di produzione e di consumo, si manifestano nuove culture, come concezione globale della vita, e si possono anche creare abitudini di consumo e stili di vita oggettivamente illeciti e spesso dannosi per la salute fisica e spirituale della persona: si pensi agli effetti deleteri del consumismo.

Riprendendo l’analisi dei tipi d’impresa esistenti, c’è il modo, simile ai precedenti per altri aspetti, in cui però chi decide ha riguardo alla qualità sociale dei beni prodotti; più in generale, a creare valore economico avendo un impatto positivo sul contesto sociale in cui opera e sull’ambiente naturale, poiché ritiene parte della sua missione il perseguimento di una stretta integrazione con la comunità in cui opera (modo denominato anche con il termine benefit corporation).

C’è il modo analogo a uno dei precedenti, in cui però le decisioni sono prese con approccio cogestionale da parte dei diversi fattori di produzione che partecipano all’attività produttiva.

C’è il modo cooperativo, nel quale le strutture produttive perseguono fini di democrazia – nella sua organizzazione si conta per quello che si è e non per quello chi si ha – o di mutualità fra i soci, che favorisce sia la collaborazione fra persone con gli stessi bisogni economici sia l’occupazione sia un’equa distribuzione, fra i produttori, della produzione realizzata dall’impresa. In questo contesto, si favorisce la relazionalità fra le persone, la reciprocità, la solidarietà aperta verso gli altri portatori di bisogni analoghi a quelli dei soci e nei confronti degli interessi specifici della comunità economica e sociale all’interno della quale la cooperativa opera; atteggiamento, quest’ultimo, tipico delle cosiddette «cooperative di comunità» – le quali operano per ridare vita, attraverso la restituzione di servizi, a territori fragili e marginali – ma che comunque impregna lo spirito cooperativistico, in generale. Questo può essere sintetizzato dicendo che il cooperativismo ha, nel suo patrimonio genetico, la vocazione e la capacità dell’inclusione sociale.

C’è il modo delle imprese di comunione, nelle quali si punta a creare una comunione totale, economica e metaeconomica, fra le diverse persone in esse operanti; delle persone e delle loro famiglie poiché il lavoratore/lavoratrice non deve essere considerato come un unicum isolato, ma nel contesto delle proprie relazioni, e la famiglia è la prima espressione della relazionalità personale. Per questo motivo, nella gestione delle imprese di comunione, rilevante è anche l’equilibrio tra tempo di lavoro e tempo di vita extralavorativa.

Le economie di comunione appartengono al contesto delle cosiddette imprese con finalità sociali: imprese di proprietà privata che non hanno come motivazione della loro azione la massimizzazione del profitto (nel breve e nel lungo periodo), bensì il conseguimento di obiettivi sociali quali la produzione di beni di primaria necessità (comprese l’abitazione, l’istruzione, l’assistenza sanitaria, la cura e assistenza alla persona, l’avviamento al lavoro, il credito) a prezzi accessibili a tutta la popolazione (compresi i poveri e gli altri soggetti deboli), in modo comunque da essere sostenibili, cioè da coprire, con i ricavi, i costi di produzione – mantenendo così il capitale – con remunerazione netta nulla, o pressoché nulla, dello stesso. Valori economici e valori sociali sono quindi fusi nell’operare delle imprese con finalità sociali (dimensione economica e dimensione sociale vengono a compenetrarsi in esse), che operano secondo la logica del mercato, ma non nel modo in cui operano le imprese capitalistiche – che perseguono un fine di carattere esclusivamente economico, come la massimizzazione del profitto, e che operano nei mercati, non per soddisfare bisogni, ma preferenze solvibili (posso essere assetato al limite della sopravvivenza ma, se non dispongo di potere d’acquisto, il mio bisogno non potrà essere soddisfatto) –  bensì collettivi e d’interesse comune; quindi quanto mai adatti nell’àmbito delle politiche di welfare sociale e della gestione dei beni collettivi e dei beni comuni. Nelle imprese con finalità sociali – similmente a quanto avviene, in varie forme e gradi, nella famiglia, nei piccoli gruppi di produttori informali, nelle associazioni di volontariato – punto essenziale e qualificante è la pratica della reciprocità, che genera fiducia reciproca e crea quindi  un ambiente relazionale di elevata qualità.

Le  imprese di comunione e le imprese con finalità sociale vengono spesso incluse nel concetto di economia civile: un approccio che introduce principi etici e morali nel sistema politico, economico e sociale; per rendere la società attenta non soltanto agli aspetti produttivi; per indirizzare l’economia verso una situazione di perenne giustizia, verso uno sviluppo duraturo e sostenibile – cioè degno dell’uomo e della donna per «civilizzare l’economia» (e i sistemi politico-socio-economici), nel senso che il discorso politico, sociale e politico e il discorso etico camminino uniti, contaminandosi vicendevolmente. In particolare, l’economia civile costituisce un’applicazione reale dei principi di «reciprocità-amicizia» e di «reciprocità incondizionale»; basata sull’altruismo e consistente nella sfida di mostrare che, non solo i tradizionali principi dell’etica sociale – quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità – devono essere mantenuti e rinforzati, ma anche che, nei rapporti mercantili, il principio di gratuità e la logica del dono, come espressioni della fraternità, possono e devono trovare posto entro la normale attività economica.

Ma c’è anche il mondo delle imprese pubbliche. Esse possono svolgere un argine allo strapotere economico e politico delle grandi imprese private nazionali e multinazionali, specie con riferimento a settori strategici, quali salute, difesa, sicurezza, infrastrutture riguardanti energia e acqua, ricerca, comunicazioni, trasporti, intelligenza artificiale, robotica, nano e biotecnologie et similia. Non solo, poiché le imprese pubbliche possono e debbono svolgere un ruolo importante all’interno del mercato del lavoro, assumendo una funzione di riferimento in sede di contratti collettivi di lavoro, nella direzione di dar vita a un lavoro che (per usare un’espressione cara a Papa Francesco) sia libero, dignitoso, creativo, partecipativo e solidale (nella consapevolezza comunque che non c’è organizzazione economica – imprese private e imprese e aziende pubbliche – che possa prescindere dalla partecipazione, particolare o globale, di lavoratrici/lavoratori alla gestione della stessa) affinché si crei vera inclusione sociale e non già lavoro emarginato, lavoro discriminato e discriminante, lavoro avvilente, lavoro mal retribuito e sfruttato, lavoro precario, lavoro che si dissolve, lavoro che non c’è, che rende precaria l’esistenza delle persone. E questo per il bene stesso dell’impresa che, per aver successo economico e metaeconomico, deve – come si suol dire – investire sui lavoratori, cioè impegnarsi e impiegare risorse per  la formazione d’ingresso e per la formazione continua dei lavoratori, per creare un ambiente lavorativo di buona qualità che stimoli le relazioni interpersonali e la creatività dei lavoratori e richieda ai lavoratori di fare prestazioni di qualità, che sono gli ingredienti imprescindibili per creare un’impresa di successo, economico e sociale. E questi sono i presupposti per saper competere in termini di qualità e non di prezzo fondata su una forsennata ricerca della compressione dei costi.

Pensiamo di avere ben evidenziato i diversi tipi d’impresa e, all’interno di tutte queste, quale tipo di comportamento conduce a risultati economicamente, socialmente ed eticamente ottimali. Parola d’ordine è che l’impresa sappia essere comunità e sappia legarsi al territorio in cui opera.

Tra persona e lavoro esiste comunque una priorità ben definita. La persona è l’obiettivo finale (l’assoluto etico), rispetto al quale il lavoro è l’obiettivo intermedio principale, anche se non di solo lavoro vivono la donna e l’uomo. Noi crediamo, e quindi possiamo concorrere a creare, la seguente sequela etica del lavoro: il lavoro è un bene dell’uomo, per l’uomo e per la comunità; ma l’uomo ha il primato sul lavoro, perché il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro e per l’economia; il lavoro ha il primato sul capitale e non il lavoro è al servizio del capitale; quale sintesi, la fabbrica (lavoro e capitale) è per l’uomo e non l’uomo per la fabbrica.

  1. Azioni strategiche della Carta dei valori

Il nostro non è però solo un atteggiamento di segnalazione  sottolineata dei comportamenti virtuosi. Abbiamo anche l’ambizione di proporre azioni strategiche che portino, direttamente o indirettamente, a migliorare il funzionamento del nostro sistema economico.

3.1. Attivazione di un percorso integrato e continuativo d’istruzione (scuola, formazione professionale, istruzione tecnica o economica o agraria superiore, università, forme extra-curricolari, alternanza scuola-lavoro, scuole di fabbrica, apprendistato partecipato) caratterizzato dal principio del confronto fra soggetti del vasto mondo dell’istruzione e della formazione, istituzioni di governo pubblico, enti sociali intermedi, imprese, rappresentanze sindacali dei lavoratori dipendenti su che cosa significa e quali sono le buone pratiche che sono davvero attivabili per progettare, organizzare, finanziare e incentivare la formazione di una nuova generazione di cittadini attivi e partecipi, facendo sì che la formazione in senso lato sappia cogliere le opportunità che la ripresa della società e dell’economia pone, sapendo essere propositiva nella direzione di un nuovo modello di sviluppo (che darà maggiore spazio alle tematiche digitali, ambientali, di cura della persona, di cura e recupero dei territori), facendo riacquistare a se stessa la funzione di ascensore sociale,  avendo presente che il futuro del lavoro ha in sé forti spinte verso una struttura polarizzata, tendenza che dev’essere contrastata nei suoi effetti sociali, se la polarizzazione dovesse portare all’emarginazione economica e sociale delle persone.

Occorre che questo percorso non lasci indietro nessuno, non sia causa di nuova esclusione sociale. A questo proposito, si noti che, nel corso dei periodi di limitazione alla mobilità personale – a causa del contrasto alla diffusione della pandemia da Covid 19 – si è creata una spaccatura fra chi dispone di mezzi di comunicazione a distanza (telefoni, tablet, pc ecc.) e chi non ne dispone. Occorre intervenire affinché i secondi non vengano lasciati indietro, non vengano esclusi culturalmente e socialmente.

3.2. Verifica della sostenibilità della domanda formativa propria delle singole imprese nonché, in chiave proattiva e sussidiaria, a quella dei propri stakeholder, del proprio territorio; quindi:

– apertura alle esigenze proprie, ma anche di quelle delle altre imprese e delle esigenze degli enti di formazione aventi un’impronta valoriale, dando luogo a un’azione di politica di welfare d’impresa estesa all’intero territorio, dando luogo a una vera e propria filiera della domanda formativa;

– disponibilità delle imprese a soluzioni lavorative solidali post-formazione volte a risolvere il disagio sociale, curando l’inserimento/inclusione dei giovani meno fortunati nel mondo del lavoro.

3.3. Declinazione dei predetti punti in un vero e proprio progetto territoriale del Festival, che stimoli le imprese profit e non profit, le rappresentanze dei lavoratori e delle imprese, gli enti intermedi, i soggetti erogatori di servizi d’istruzione e di formazione verso un vero e concreto programma operativo che parta dalla presa di coscienza (attraverso azioni di ricerca e di monitoraggio) di tutte le offerte esistenti a sostegno del diritto allo studio e alla formazione professionale: da parte di Regione Piemonte, fondazioni di origine bancaria, Fondazione Agnelli, Fondazione per la Scuola, Ufficio Scolastico Regionale, fondazioni d’istruzione superiore, centri di formazione professionale, programmi di welfare aziendale. Manca, in effetti, una regia globale in questo campo, con il rischio che le risorse e le energie esistenti vadano disperse.

E’ anche debole la disponibilità dei soggetti citati a concludere intese generalizzate di collaborazione. Meglio contare sulla possibilità di definire intese di co-partecipazione su specifici progetti, quale quello qui definito.

Obiettivo del progetto è quello di porsi come interlocutore (non unico) delle istituzioni locali per costruire insieme politiche pubbliche che superino la tradizionale settorialità d’intervento, per sperimentare percorsi di welfare comunitario dove ciascuno, secondo il proprio ruolo, concorre a realizzare un sistema integrato di cooperazione.

Il programma di attuazione del progetto in parola dovrà prevedere la creazione di:

– un accordo istituzionalizzato fra imprese, soggetti del mondo dell’istruzione e della formazione e stakeholder del territorio;

– a valle dei progetti, un’azione d’incentivazione degli attori, ad esempio premiando le imprese, le categorie e gli enti formativi in senso lato che abbiano davvero conseguito risultati positivi nei progetti che hanno promosso o ai quali hanno preso parte;

– borse di studio, finanziamenti, sponsorizzazioni per corsi paritari e acquisto di attrezzature;  -specifiche politiche attive del lavoro, le quali mirano a permettere ad ogni persona un accesso rapido ed equiprobabile ai posti di lavoro vacanti, cercando di creare le condizioni affinché il diritto al lavoro di ogni persona venga reso possibile. Esse si caratterizzano per voler direttamente incidere sulla struttura del mercato del lavoro; favorire l’adeguamento delle caratteristiche di coloro che aspirano a un’occupazione alle esigenze della domanda di lavoro; creare possibilità occupazionali attraverso una diversa organizzazione del mondo del lavoro.

In effetti, si dice che innovazione e globalizzazione hanno portato a una frattura fra sviluppo e occupazione. Si tratta di una falsa frattura. In realtà, hanno portato a una frattura fra sviluppo e qualsivoglia occupazione. Le politiche attive del lavoro hanno come missione di ricomporre questa frattura per poter includere nel mondo del lavoro le persone che sono deboli all’interno di esso. Inoltre, esse non puntano tanto alla creazione di posti di lavoro, ma piuttosto di occasioni lavorative, e cercano di far realizzare il diritto al lavoro più che il posto di lavoro. Prendono in considerazione, non soltanto l’accesso al tipico lavoro dipendente, ma anche combinazioni fra lavoro dipendente e lavoro autonomo (singolo o associato) e contemplano anche la possibilità di permettere diverse esperienze lavorative e ampia mobilità intra occupazionale.

Il progetto non dovrà ignorare l’attuale situazione socio-economica della realtà torinese e metropolitana, dove è in aumento la povertà educativa delle famiglie. Una povertà multi-dimensionale che rischia di diventare cronica a causa dell’acuirsi di fattori di esclusione sociale provocati dall’attuale pandemia, che si aggiunge a un quadro economico con presenza di diffuse fragilità. Queste condizioni – che sono penalizzanti soprattutto per i più giovani che faticano a stare nei percorsi standard di istruzione/formazione e, non avendo a disposizione una seconda occasione, vedono compromesso il proprio diritto allo studio – rivolgono una domanda impellente al progetto affinché venga messa particolare attenzione a contrastare qualsiasi situazione che rischi di trasformarsi in fattore di esclusione sociale.

Infine il progetto non dovrà ignorare l’impegno per l’inserimento delle persone di recente (ma anche non di recente) immigrazione, che passa attraverso le fasi di accoglienza, orientamento, formazione, inserimento lavorativo, ma necessita anche di assistenza legale e d’inserimento abitativo.

3.4. Però non si realizza un vero percorso di sviluppo se non s’investe in capitale umano; in questo caso, dell’intera comunità. Per questo occorre realizzare un laboratorio di formazione permanente sulla Dottria sociale della Chiesa – che faccia conoscere, in modo stimolante e costruttivo, il nuovo modello di sviluppo integrale possibile dell’economia e della società che la Dottrina sociale della Chiesa ha creato, per lo meno, negli ultimi 130 anni. L’approccio ha da essere di tipo prevalentemente induttivo: la testimonianza dei laici che, con il loro comportamento abituale, fanno emergere i valori propri della Dsc

Gli  enti aderenti alla carta dei valori:

Acli Torino, Agesci Torino, Aipec, Azione Cattolica Torino, Casa di Carità Arti e Mestieri, Cisl Piemonte, Cisl Torino e Canavese, Cisv Torino, Coldiretti Piemonte, Engim,  Fmo, Fondazione Centesimus Annus, Gioc, Giuseppini del Murialdo, Istituto Toniolo Torino, Mlac Torino, Movimento dei Focolari,  Salesiani don Bosco, Suore di San Giuseppe, Ucid Torino, Upsl.

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