Dall’Eritrea a Mirafiori il primo Natale senza paura

Torino – Dal 1 dicembre tre parrocchie accolgono una mamma con i tre figli fuggiti da Asmara, profughi in un campo in Etiopia, arrivati con i corridoi umanitari promossi da Caritas Italiana

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«Sarà una doppia festa». Gadise (il nome è di fantasia) immagina così il suo primo 25 dicembre in Italia, a Mirafiori. È  eritrea, copta ortodossa e il Natale lo celebrerà il 7 gennaio «ma anche il 25 perché siamo cristiani», e si coglie nello sguardo il desiderio di condividere la preghiera con le comunità che hanno accolto lei e i suoi tre figli lo scorso 1° dicembre. Il desiderio della festa c’è, anche se nel cuore il dolore,  e la fatica della fuga, del passato pesano ancora. «Qui è tutto bello» dice con gratitudine, ma un attimo dopo al ricordo della sua storia sgorgano le lacrime e gli occhi si abbassano. Gadise è arrivata in Italia il 29 novembre con altri 66 richiedenti asilo e per Torino è l’ultimo – in termini temporali – arrivo di profughi con i corridoi umanitari aperti da Governo italiano e Caritas Italiana. (Da più di tre anni ormai numerose famiglie sono giunte dalla Siria e dall’Africa nella nostroa diocesi con i corridoi attivati da Sant’Egidio e Tavola valdese e, accolte da unità pastorali, associazioni, congregazioni religiose, stanno avviandosi verso l’autonomia).

A Torino è la Pastorale Migranti (Upm) – per conto di Caritas Italiana – a gestire il progetto di accoglienza di questi profughi: «un’esperienza nuova», spiega Miriam Carretta dell’Upm «rispetto a quella che portiamo avanti nell’ordinario, che ci sta facendo ‘toccare con mano’ la bellezza  di un’ospitalità attesa, preparata coinvolgente. La pastorale migranti ha il compito di sostenerla economicamente per un anno e di accompagnare il progetto, ma la forza sta nei volontari…». Una quindicina di persone (il gruppo più direttamente operativo) a nome di tre comunità parrocchiali  –  Santi Apostoli, San Barnaba e Beati Parroci – che si sono messe in gioco, si sono preparate e stanno facendo rete intorno a Gadise e ai suoi figli. «Il progetto», racconta don Gianmarco Suardi, parroco dei Sani Apostoli e di San Barnaba,  «ha radici lontane. Quando le Figlie della Sapienza che vivevano in un alloggio della parrocchia dei Santi Apostoli si sono trasferite ci siamo chiesti che uso fare dei locali rimasti vuoti. Abbiamo pensato, stimolati dagli inviti i papa Francesco e del nostro vescovo, che potessero essere destinati all’accoglienza, ma una accoglienza che fosse portata avanti e condivisa non solo a livello di piccolo gruppo o di parrocchia singola… abbiamo aspettato che maturasse e si diffondesse la sensibilità per ‘partire insieme’ e visto che con i corridoi umanitari c’è stato un ritardo abbiamo iniziato ad accogliere per due brevi periodi prima una famiglia siriana cristiana e poi una famiglia siriana musulmana».

«Una sperimentazione positiva», spiega Gabriella Zampieri, tra i volontari del progetto «che ha messo in moto tante persone. Così in questi giorni alla notizia dell’arrivo di Gadise, tanti si sono resi disponibili, hanno scoperto di avere risorse da condividere, hanno capito che l’accoglienza è possibile se tutti si ci mette una po’ in gioco». «Abbiamo provato», aggiunge don Suardi,  «ad aprire le porte all’interno delle nostre comunità e sul territorio, ad aprire le porte come invito contagioso che risveglia l’umanità e la tenerezza nel cuore delle persone e lo abbiamo verificato in tanti piccoli gesti: una vicina di casa, all’indomani dell’arrivo di Gadise ha suonato agli altri inquilini per presentarla…  un parrocchiano è venuto a chiedermi come aiutare un’altra persona straniera in difficoltà».

Sono passate poco più di due settimane dall’arrivo di Gadise, i figli vanno a scuola e il percorso per imparare l’italiano è stato avviato. Molto più lungo il percorso per cancellare le ferite e il dolore per la fuga da un paese schiacciato da un regime autoritario che reprime ogni diritto democratico, che obbliga alla leva obbligatoria permanente, che incarcera e fa sparire chi si oppone. Questo è accaduto al marito di Gadise: «È andato in prigione, non ne sappiamo nulla da tempo. Noi siamo di Asmara, appena aperte le frontiere, sono scappata in pullman con i miei tre figli, abbiamo passato il confine e siamo finiti in un campo profughi. Le condizioni erano difficili, caldo, malattie, senza più nulla…».

Racconta con il volto triste, ma il sorriso ritorna non appena il figlio più piccolo dice «La cosa più bella che hai trovato qui? La metropolitana  perchè ho anche fatto il guidatore….» e il fratello maggiore aggiunge «E la neve che non avevamo mai visto…».

Sul tavolo Gadise offre la «Kiccia» e il the e il racconto della sua storia si mescola ai progetti dei figli che chiedono cosa potranno studiare.  Il dolore del passato si stempera con le speranze di un futuro che riparte così da Mirafiori, da questo primo Natale «che vivremo senza paura».

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