L’interpretazione della «Commedia» come viaggio non solo è legittima, ma ha certo la sua fonte prima nell’Itinerarium mentis in Deum di san Bonaventura, che Dante del resto colloca nel Paradiso ad elogiare (canto XII) san Domenico. Nel XX secolo uno dei maggiori critici americani del poema, Charles Singleton, intitolò il suo fondamentale saggio sulla «Commedia» proprio così: «Journey to Beatrice» (Cambridge, Harvard University Press, 1958). La tradizione di raggiungere il luogo edenico viaggiando per terre incognite è ben nutrita nel Medioevo sino al «viaggio di san Brandano»: rinvio al volume, a cura di Giuseppe Tardiola, «I viaggiatori del paradiso: mistici, visionari, sognatori alla ricerca dell’aldilà prima di Dante» (Firenze, Le lettere, 1993). Dante stesso presenta il suo iter come un viaggio: «A te convien tenere altro vïaggio» (Inf., I, 91), «da lei saprai di tua vita il vïaggio» (Inf., 10, 132) etc.; e non meno un pellegrinaggio: «E Virgilio rispuose: ‘Voi credete / forse che siamo esperti d’esto loco; / ma noi siam peregrin come voi siete’» (Purg., II, 61-63). Su questi temi ha scritto pagine affascinanti Roger Dragonetti, «Dante pèlerin de la Sainte Face» (Gent, Romanica Gandensia, 1968) alle quali è bene risalire.
Il volume di Marco Bonatti «Dante a piedi e volando. La ‘Commedia’ come racconto di viaggio» (prefazione di Andrea Riccardi, Milano, Edizioni Terra Santa, 2020, pp. 240, euro 17,00) presenta il viaggio «a piedi e volando». Dante in effetti è un grande camminatore, come ha osservato Osip Mandel’štam: «Nel suo poema, filosofia e poesia son sempre in cammino, sempre pronte a partire. […] Il suo passo è deduzione, risveglio della mente, sillogismo» («Conversazione su Dante», II); ma il poeta vola anche, in groppa a Gerione per esempio (Inf. XVII), e poi da un cielo all’altro del Paradiso.
L’autore insiste, giustamente, sul carattere teatrale della «Commedia»: «La rappresentazione che Dante mette in scena dovrebbe aver a che fare con quanto accadeva sulle piazze di tutte le città d’Italia e d’Europa, nelle processioni votive come negli ‘spettacoli sacri’, o nelle rappresentazioni della Settimana Santa»; in effetti il titolo stesso del poema (Dante vi insiste nell’«Epistola a Cangrande») rinvia a una forma teatrale – «Commedia» – meno illustre che non la tragedia ma più corale, e i suoi dialoghi sono spesso sequenze teatrali, il teatro dell’eternità. Il poema raccoglie l’eredità delle «sacre rappresentazioni», dei mystères, medievali; è una sequenza continua fitta di personaggi maggiori e minori: papi e liutai, briganti e donne innamorate, teologi e sodomiti, mitici eroi della classicità e santi, tutti interrogati, descritti, congedati da Dante nella sua ansia di ascendere al mistero trinitario.
Il volume è prevalentemente dedicato ai canti dell’Inferno, che è, tradizionalmente, la cantica più amata per la varietà espressionista, e anche favolistica, delle apparizioni; con un accostamento ardito, ma non indebito, l’autore osserva: «Megera, Aletto, Tesifone, direttamente richiamate dall’’Eneide’ e dalle ‘Metamorfosi’, sembrano balzare sul cammino come i fantasmi nel tunnel dei Luna Park». È l’aspetto ‘iperrealistico’ del poema già messo in luce da Edoardo Sanguineti nel suo saggio su Malebolge (Firenze, Olschki, 1961) e che sarà base della sua riscrittura teatrale dell’Inferno: «Commedia dell’Inferno: un travestimento dantesco», Genova, Costa & Nolan,1989.
Più contenuta è la parte riservata al Purgatorio, che si accentra soprattutto su «Guardiani e Muse», sull’eredità – in pieno assunta – della civiltà latina: L’intero Oltretomba cristiano si pone in stretta continuità con quelli pagani dell’’Eneide’ o dell’’Odissea’». In effetti, come ha osservato Ernst Robert Curtius in «Letteratura europea e Medio Evo latino», Dante ricapitola tutta la classicità latina, traducendola in un volgare vivido, dando ad essa un nuovo pubblico, facendola rivivere per nuovi secoli: «La ‘Divina Commedia’ ci presenta un’ultima volta il teatro universale del medio Evo latino, ma trasposto in linguaggio moderno, rispecchiato da un’anima pari a quelle di Michelangelo e di Shakespeare» (Curtius).
Meritano altresì attenzione i passi che l’autore enuclea dal Paradiso dantesco, in particolare il richiamo costante al «folle volo» di Ulisse: anche Dante, e sin dall’Inferno, è posto di fronte alla vanità della propria arditezza: «Sol si ritorni per la folle strada» (Inf., 8, 91), e quel mitico viaggio lo assilla sino al termine, quasi, dell’ascesa paradisiaca: «E quella pia che guidò le penne /de le mie ali a così alto volo» (Par., 25, 49-50). La differenza tra Ulisse e Dante personaggio è che il poeta cristiano, conscio dei rischi della propria superbia, si piega all’humilitas di avere sempre, per scorta, delle guide elette: Virgilio, Beatrice, san Bernardo, che non solo lo conducono, ma anche lo istruiscono, lo elevano, lo rendono degno di «insemprarsi». Ulisse volle essere gubernator di quella nave dei folli, Dante si fece discipulus infine redento a più alta visione: «sì ch’io vedea di là da Gade il varco / folle d’Ulisse, e di qua presso il lito / nel qual si fece Europa dolce carco» (Par., XXVII, 82-84).
Avvicinandosi il centenario dantesco, si moltiplicano i saggi che intendono attualizzare la «Commedia»; vario può essere l’atteggiamento di lettura e il giudizio critico: tutti, in ogni modo, contribuiscono a tener viva la memoria del poema, poiché -come scriveva Claude Lévi-Strass, «tutte le versioni di un mito appartengono al mito» («Antropologia strutturale»).