Viviamo oggi in un’epoca sempre più dominata dall’amnesia impietosa del passato, dall’immersione inconsapevole nel presente, dall’accelerazione parossistica verso il futuro. La nostra memoria sociale e culturale, invece che essere affidata, com’è stato per secoli, alla conoscenza storica, faticosamente acquisita attraverso lo studio e l’interpretazione dei documenti del passato, è ormai sempre più consegnata alla memoria artificiale dei computer e della Rete. Internet, un insieme di fili e di cavi che ci collega e interconnette globalmente, si è trasformato per molti, a partire dai più giovani, in una realtà quasi divina e onnipotente, che contiene in sé, come il Dio della metafisica classica, passato, presente, futuro.
Quale ruolo può mai avere, in questa ‘terra desolata’, la storia? Il suo compito tradizionale consistente, partendo da interrogativi legati alla situazione contemporanea, nel ritornare a pensare epoche e situazioni di un passato più o meno lontano per misurare meglio la differenza con l’oggi, ma anche per cercare risposte ai quesiti spesso drammatici che il mondo contemporaneo pone, sembra messo radicalmente in crisi dal crescente dominio tecnologico. Questo vale a maggior ragione per la storia religiosa, il tronco che, coi suoi vari rami (storia delle religioni, storia del cristianesimo, storia della Chiesa), indaga il passato religioso dell’umanità. In un’epoca, come la nostra, in cui la religione sempre più diffusa è l’umanesimo secolarizzato, incalzato da nuove forme di religione tecnologica che guardano a un futuro ormai imminente in cui il posto del Dio tradizionale sarà preso dal ‘Dio numero’ dell’algoritmo, che senso può mai avere studiare questa storia e soprattutto trovare i mezzi per trasmettere questa passione ai più giovani?
Se si vuole trovare una risposta, occorre guardare all’esempio magistrale di grandi figure di storici religiosi, come il francese Jean Delumeau, nato a Nantes il 18 giugno 1923 e morto il 13 gennaio di quest’anno nella sua Rennes. Pur provenendo da una famiglia modesta, grazie alle sue doti intellettuali non comuni egli è riuscito a percorrere tutti i gradini più importanti della vita accademica francese (unica ambizione frustrata: l’ammissione all’Académie Française, il tempio degli ‘immortali’ di Francia, che gli fu negata nel 2002) grazie a un’opera molto vasta (una cinquantina di volumi). Dopo alcune ricerche giovanili consigliate da Fernand Braudel su aspetti della vita economica della Roma del Cinquecento, che fanno ancora testo e dopo due lavori di sintesi sulla Riforma protestante e sul cattolicesimo tra Lutero e Voltaire, Delumeau ha consacrato la sua vita di studioso alla storia delle mentalità religiose in epoca moderna (come si intitolava la sua cattedra al Collège de France, che egli ha tenuto dal 1975 al 1994), secondo una prospettiva di studio tipica della scuola delle Annales (Jacques Le Goff, uno dei suoi protagonisti, era stato suo compagno di liceo a Marsiglia). Il libro che lo rese famoso, tradotto in molte lingue, è «La Peur en Occident XIVe-XVIIIe s.», del 1978. Come ha confessato in alcune interviste, la paura «è stata una compagna onnipresente durante la mia infanzia», formatasi secondo modalità religiose tradizionali di cui poi come storico egli avrebbe rintracciato le origini. Si tratta di un lavoro straordinario per la messe incredibile di documenti esaminati e la capacità di indagarne le pieghe più riposte per far emergere quel sentimento collettivo di paura che, a partire dalla peste del XIV secolo, prese progressivamente piede in vari paesi europei e fu poi alimentato dalla Chiesa attraverso varie forme di comunicazione. Tra questi strumenti vi fu anche il peccato e la paura dell’inferno e del diavolo che ne conseguiva, un cavallo di battaglia della Chiesa post-tridentina e dei suoi più famosi predicatori. Questo senso di colpa sta al centro di un altro libro celebre del 1983, una sorta di sequel del precedente: «Le Péché et la peur. La Culpabilisation en Occident XIIIe-XVIIIes».
Ma terrorizzare non era l’unico volto dell’insegnamento cattolico: secondo un insegnamento biblico fondamentale, al Dio della giustizia si accompagna il Dio della misericordia. Di qui il compito della Chiesa di perdonare («L’aveu et le pardon» del 1989), ma anche di rassicurare e proteggere, anche attraverso i ‘tribunali della coscienza’ cioè la confessione dei peccati («Rassurer et protéger. Le Sentiment de sécurité dans l’Occident d’autrefois»). Per chi evitava le trappole del peccato mortale vi era la promessa del paradiso. In una trilogia uscita tra il 1992 e il 2000 Delumeau, dopo aver ricostruito la preistoria del paradiso e il modo in cui esso diventa tra Medioevo e prima età moderna la sede futura dei beati, nell’ultimo lavoro si interrogava sulle sue metamorfosi secolarizzanti, utopiche e terrestri. Nel complesso, si tratta di un settenario monumentale che ricostruisce un’antropologia storica del cristianesimo occidentale, con lo scopo, secondo il suo autore, «che i cristiani cessino di avere paura della Storia».
Affermazione che si comprende meglio se si tiene conto della sua sincera e profonda fede, un’eredità delle sue origini bretoni, che egli ha conservato fino alla fine, come dimostra il toccante testamento che il settimanale cattolico «La Croix», con l’autorizzazione dei familiari, ha pubblicato subito dopo la sua morte. Il Concilio poteva avere sdoganato una riflessione teologica sulla storia, privandola degli aspetti negativi legati alla crisi modernista. Si trattava ora, per il Delumeau storico e credente, di permettere anche ai fedeli comuni di avere accesso alle ricchezze del loro passato allo scopo di comprendere meglio il presente. Quella di Delumeau era una fede libera e pensosa «che mi ha accompagnato come un’ombra», aveva confessato in un’intervista, combattiva, critica su più punti verso l’istituzione ecclesiastica. Ciò che in fondo lo interessava era il vissuto del popolo cristiano, come si intitola una importante raccolta di saggi da lui curata nel 1985.
Questa fede lo ha portato, come storico credente, a interrogarsi più volte su un altro fenomeno storico di lungo periodo: i processi di scristianizzazione che, come i suoi studi dimostrano, hanno radici molto lontane e costituiscono un dato culturale fondamentale anche in una società secolarizzata come la nostra, con l’importante conseguenza che la scristianizzazione non significa la scomparsa dei valori cristiani ma la loro metamorfosi, da cui la necessità per lo storico di studiare questo fenomeno carsico. In un famoso saggio del 1977, «Le Christianisme va-t-il mourir?», egli affrontò di petto la questione, suscitando una discussione vivacissima tra credenti ma anche non credenti: un saggio che nulla ha perso della sua attualità. Ma fino alla fine («L’avenir de Dieu» è del 2015) egli ha continuato a interrogarsi e a interrogare i credenti sul mistero della (propria) fede.
L’opera di Jean Delumeau è una testimonianza significativa del ruolo fondamentale che la memoria storica del cristianesimo, a cominciare dai suoi testi fondativi, i Vangeli, deve continuare a recitare come valore culturale fondamentale su cui poggia la nostra tradizione. Il suo contributo di storico credente ci ricorda che la conoscenza critica del passato di questa religione non è solo un esercizio accademico elitario ma un modo per il credente per andare alla radici della propria fede (intelligo ut credam, per dirla con Agostino) e per il non credente per comprendere meglio il mondo di valori cristiani che continuano a costituire il fondamento della nostra civiltà.