Devianza: l’argine è la famiglia

Disagio giovanile – A colloquio con Ennio Tomaselli, magistrato e scrittore torinese, dal 2005 al 2009 a capo della Procura minorile: «Una genitorialità sana o sufficientemente buona costituisce, oltre che un diritto del minore, la prevenzione doverosa e più efficace di sbandate più o meno gravi»

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Ennio Tomaselli, classe 1950, ha prestato servizio in magistratura dal 1978 al 2014, sempre a Torino. Ha operato prevalentemente in ambito minorile, sia come giudice del Tribunale per i minorenni (fu lui a scrivere la sentenza di primo grado del processo dei due minori di Novi Ligure) che come pubblico ministero presso lo stesso Tribunale. Dal 2005 al 2009 è stato a capo della Procura minorile della Repubblica. Lasciata la magistratura, ha scritto un saggio e due romanzi, da anni collabora con più riviste, occupandosi non solo di questioni strettamente giuridiche e recensendo libri e film su tematiche giovanili. Con lui, a partire dalla sua esperienza di giudice minorile, proseguiamo la nostra riflessione sul crescente disagio giovanile delle nostre periferie urbane.

Dottor Tomaselli, dopo aver operato in magistratura soprattutto nell’ambito minorile, occupandosi anche di casi che hanno riempito per mesi le pagine di cronaca nazionale, ha pubblicato due romanzi dove i protagonisti sono giovani accomunati dall’incontro/scontro con la giustizia minorile. Perché, dopo aver scritto un saggio su di essa, ha deciso di cambiare genere letterario?

Perché certe tematiche e problematiche, da non riservare agli addetti ai lavori, potessero giungere più facilmente ai lettori, con opere di fantasia che funzionassero come tali (per storie, intrecci, scrittura) e nel contempo muovessero dalla realtà veicolando messaggi e spunti di riflessione. Anche, naturalmente, sugli adulti; quegli adulti le cui storie e condotte s’intrecciano, nei romanzi ma anche e anzitutto nella realtà, con quelle dei ragazzi.

Ennio Tomaselli

Nel suo primo romanzo «Messa alla prova» il protagonista Vito ha alle spalle un’adozione fallita. Nel secondo, «Un anno strano», in libreria in queste settimane, la protagonista Romy è una ragazza vittima di precoce abbandono materno e con un padre tossicodipendente. Entrambi sono entrati in rapporto con contesti a rischio. Solo dall’incontro con adulti ˗ il magistrato Malavoglia ma non solo ˗ che in varie forme si fanno carico di loro cercando di mantenere comunque un «aggancio», le situazioni iniziano a mutare. Quanto conta la famiglia, nella sua esperienza, perché un giovane non «sbandi»?

Rispondo muovendo anch’io da Vito e Romy. Per la ragazza il «buco nero» legato alla famiglia è enorme e alla radice di una devianza penale grave, con connesse esperienze anche carcerarie, pur se coesiste una disperata ricerca di «normalità» a lungo inconscia e poi, dolorosamente ma non più disperatamente, consapevole. Per Vito il trauma più grave risale all’infanzia (epoca della separazione dalla famiglia d’origine), non viene riparato nell’esperienza adottiva e tutto esplode in adolescenza. Detto ciò, in tutti i casi, nella finzione e nella realtà, quindi anche nella mia esperienza, la famiglia è decisiva. Una genitorialità sana o (termine usato in ambito psicologico) «sufficientemente buona» costituisce, oltre che un diritto del minore, la prevenzione doverosa e più efficace di sbandate più o meno gravi (pur possibili comunque) ed è fondamentale nella gestione di quelle fisiologiche soprattutto in adolescenza.

L’ultimo romanzo del giudice Tomaselli, Un anno strano, Manni editore

Nelle scorse settimane a Torino e altrove in Italia, durante gli scontri contro le chiusure per i blocchi del Dcpm, tra le persone fermate perché coinvolte negli atti vandalici e nei saccheggi dei negozi di lusso c’erano minorenni e giovani, italiani o stranieri di seconda generazione, che vivono nelle periferie degradate della nostra città e che somigliano molto ai protagonisti dei suoi romanzi. Molti analisti hanno letto in questi episodi la rabbia e la voglia di riscatto che cova delle bande di adolescenti delle fasce più povere. È d’accordo con questa lettura?

Fondamentalmente sì, ma concordo in particolare con l’analisi del prof. Franco Prina, di cui ho letto la recente intervista a «La Voce e il Tempo» (domenica 15 novembre pag.17, ndr). La povertà non è solo quella materiale. È anche e anzitutto l’espressione di un disagio esistenziale legato alla percezione di sentirsi «scippati» della speranza di un futuro migliore, schiacciati da crisi a catena il cui effetto complessivo è di rendere «i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri». Il divario fra chi ha prospettive di futuro e chi si sente condannato all’immutabilità di una certa condizione sociale viene colmato con «passaggi all’atto» come quelli richiamati o analoghi. Per quanto riguarda i miei romanzi, preciso che i protagonisti, pur essendo ragazzi di questo nostro tempo, sono portatori di disagi più intimi. Lo «scippo», nei loro confronti, ha riguardato gli ambiti familiari, i versanti affettivi e la possibilità di credere nelle istituzioni e nelle persone in cui queste s’ incarnano. Insomma, il disagio dei giovani ha davvero molte facce.

Nei suoi romanzi, dopo vicende anche molto travagliate emerge, come già accennato, la possibilità di un cambio di rotta. D’altronde nel suo saggio «Giustizia e ingiustizia minorile. Tra profonde certezze e ragionevoli dubbi» (ed. Franco Angeli) si segnalava come si debba tenere conto, anche in ambito penale, del fatto che i minori, in quanto soggetti in crescita e con particolari possibilità di recupero, continuano ad avere esigenze di tutela e pertanto il discorso su di loro non può non riflettersi sulla famiglia, la scuola e l’intera società. In quale stato versa la giustizia minorile nel nostro Paese e come la scuola e la società civile si impegnano perché, come diceva don Bosco, «venga dato di più a chi ha di meno»?

Rispondo, circa la giustizia minorile, per quanto mi è possibile avendo lasciato la magistratura già da alcuni anni. Mi sembra, in termini generali e, per quanto posso comunque percepire, che il sistema della giustizia minorile mantenga una validità di fondo e che si continui a spingere opportunamente su direttrici qualificanti come quella della giustizia riparativa, anche perché la posizione della vittima ha ancora bisogno di maggiori spazi di riconoscimento, ascolto e partecipazione. Il fulcro del problema sta, peraltro, nella capacità di intercettare e gestire problematiche spesso complicate, anche per la varia geografia socio-economica e culturale del nostro Paese, da forme di disagio variegate, acute in contesti in cui sono in crisi «pezzi» interi di tessuto sociale. Tutto ciò, ovviamente, chiama in causa anche la scuola ma soprattutto l’intera società civile. Questa dovrà compiere uno sforzo maggiore e meglio organizzato perché sperequazioni, inefficienze e ingiustizie vengano aggredite con determinazione, sistematicità e continuità maggiori delle attuali.

Nel suo lungo percorso di magistrato minorile è entrato in contatto con minori di più generazioni, alcuni dei quali autori di delitti efferati. Chi sono i ragazzi di oggi che finiscono nelle maglie della giustizia e quali devono essere le caratteristiche di un giovane magistrato che decide di intraprendere la strada della Giustizia minorile?

Mi sembra che oggi i ragazzi incorrano, o comunque rischino di incorrere, nella commissione di reati soprattutto nei contesti più esposti, anche indipendentemente dalla scala sociale e dalla nazionalità, al rischio di disgregazione di quei valori, in senso lato culturali, che danno senso e scopo alla «normalità». Ragazzi fragili (al di là delle apparenze) perché privi di figure educanti, di adeguato senso del limite e dei limiti imposti a ciascuno di noi, privi di consapevolezza che ragazzi ancora più giovani, donne, anziani, rom… non sono persone aggredibili impunemente perché «deboli» o «nemiche», possono individuarle come bersagli di atti, a seconda dei casi, di bullismo, cyberbullismo, predazione o violenza. Ragazzi succubi di realtà virtuali e di strumenti di «sballo» (droghe, alcool, social usati compulsivamente) che possono essere a rischio di commissione di reati di varia natura, anche gravi, legati a tale dipendenza. La società, percorsa da dinamiche di crescente complessità, deve investire anche e anzitutto sui giovani perché da tale complessità, di per sé fisiologica, non scaturiscano patologie sociali che non potrebbero non coinvolgere anche i ragazzi, che sono particolarmente esposti e non possono essere lasciati soli. Quanto ai giovani magistrati, dovrebbero essere sensibili e motivati rispetto a tutto ciò e prepararsi all’eventuale ingresso nell’ambito minorile attrezzandosi non solo sulle specifiche questioni tecnico-giuridiche ma anche sulle forme di azione e intervento concretamente più efficaci e tempestive, sia sul versante penale che su quello civile, inscindibilmente connesso all’altro anche a scopo preventivo.

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