Dire Quaresima nei giorni dell’epidemia

Scrive padre Cesare Falletti – Le privazioni imposte dal Coronavirus ci stanno costringendo a rivedere i nostri modelli di vita e i valori che contano

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Padre Cesare Falletti

È la quarta o quinta volta che nella mia vita passa un vento che parla di paura, di malattia, di morte, di sospetto sull’altro che si avvicina; senza tener conto del tempo di guerra a cui nascendo ho dato il segnale di partenza. Ma allora ero troppo piccolo per riflettere e capire dove si annidava il pericolo.

La prima epidemia che ricordo è stata l’anno della mia maturità e mi sembrava di essere diventato adulto: allora per festeggiare la fine delle scuole superiori non si facevano grandi cose, ma ci si godeva la vacanza pensando al nuovo genere di vita che si sarebbe vissuto entrando all’Università. Non c’erano concorsi da preparare, né altri studi da portare avanti. L’epidemia che è sopravvenuta ha allungato le nostre vacanze, ma non ci ha chiuso in casa. Per combatterla, secondo mio padre, si doveva prendere della cannella e del whisky. La cannella mi ha lasciato un gusto di medicina che ancora oggi mi dà fastidio, il whisky, che ho cominciato a bere in quell’occasione, è rimasto una bevanda piacevole e rassicurante. Nonostante queste precauzioni mi sono ammalato anch’io, ma non in modo grave.

Le epidemie, che si sono succedute, e che hanno avuto volti diversi, sia per la diversità della gente e dell’informazione, sia per la diversa età che permette di vivere certi momenti della storia con un cuore diverso, hanno sempre scosso il nostro quieto vivere e talvolta cambiato abitudini e mentalità. Ho però l’impressione che questa volta il mondo intero sia più scosso. Mi sembra che, dopo 63 anni, con il coronavirus non abbiamo tanti rimedi in più di allora, ma nessuno propone delle medicine come mio padre fece allora e l’allarme ha preso una proporzione molto più forte.

Tante cose si dicono e si sono dette e altrettante se ne diranno ancora per le strade e in tutti gli incontri: non si parla d’altro. Ciò vuol dire che siamo ancora capaci di farci scuotere da cose che non sono banali e di farci toccare dalla grande verità della fragilità umana. Il fatto di una malattia che blocca le attività, i contatti, gli spostamenti, suscita varie reazioni. Siamo tutti talmente abituati ad organizzare il nostro tempo, a pianificare il futuro, a calcolare le possibilità del nostro fare, che il semplice fatto che tutto questo diventi aleatorio ci sconvolge e destabilizza. Si diventa come smarriti e ci si sente vittime come di una ingiustizia. Se il futuro non è più così facilmente programmabile e se siamo costretti a decidere improvvisamente qualcosa o a rinunciare a un progetto qualunque, se tutti i nostri impegni sono bloccati senza preavviso, questa cosa provoca in noi una sorda protesta: si attenta al nostro diritto di totale libertà di muoverci, contattare, trafficare. Forse quello che ci pesa di più è che non possiamo prendercela con nessuno e non ci sono capri espiatori. Come al tempo della peste di Milano, si cerca l’untore.

In un tempo in cui abbiamo quasi sfiorato l’illusione dell’onnipotenza o per lo meno ci sentiamo liberi nelle nostre decisioni e dei nostri spostamenti, liberi di traversare il mondo, siamo raggiunti dalla impossibilità, dal limite, dall’incertezza. La prima cosa positiva a cui possiamo pensare è che ci è offerta una occasione per entrare in ‘simpatia’, in solidarietà, in comunione con quanti si trovano davanti a sbarramenti, muri, reticolati e che la libertà di cui noi reclamiamo di aver diritto non sanno neanche cosa è. Non hanno progetti, non possono muoversi, non possono neppure chiedere e davvero non hanno futuro. Il cristiano come prima cosa è benedizione per il mondo e in un momento come quello presente se ne deve ricordare. L’andare errando di Abramo, il benedetto, portatore di benedizione per tutte le genti è qualcosa di sempre attuale. Anche solo per questo il male si trasforma in bene, come la risurrezione di Cristo che ha vinto la morte e il nemico seminatore di morte. È importante ricordarselo e rendere grazie a Dio che non trasforma le pietre in pane, ma il male in bene.

Una epidemia non è certo una bella cosa e, che i morti siano pochi o tanti, non è un modo di valutarne la portata: ma non c’è nulla nel mondo umano che non abbia la sua positività e tutto ci conduce a crescere in umanità, in vera sapienza e in santità. «Dio per coloro che lo amano conduce tutto verso il bene», dice San Paolo. La cosiddetta psicosi che ha invaso le nostre strade è certamente un terreno che permette alla nostra fantasia e capacità di vivere, di svilupparsi e continuamente reinventare vie d’uscita. Non siamo chiamati a vivere passivamente e a subire la storia: il Signore creandoci non solo ci ha affidato il mondo, ma ha messo nelle nostre mani la nostra storia, non per farci sentire onnipotenti, ma per stimolare in noi la capacità di mettere vita dove la morte vuole imperare.

Oltre a questo si diffonde un sentimento di paura che paralizza: mentre, anche quando molte strade sono bloccate, la possibilità di vivere è sempre grande. La paura ci rimanda all’illusione di essere ciò che non siamo: siamo infatti esseri limitati e dobbiamo occupare lo spazio e il tempo secondo ciò che ci è possibile e ciò che ci è permesso, senza diluirci o evaporarci in spazi e tempi che non esistono o per lo meno non sono alla nostra portata.

Tutto questo ci mette di fronte alla nostra precarietà: sembra che non vi sia più futuro, per questo l’unica via d’uscita è una forte fiducia nel presente. Tutto si ridimensiona e si prende coscienza dell’essenziale; eppure si è smarriti, ci sembra di aver perso il bandolo della matassa. Nessuno si rende conto di cosa sia veramente il pericolo di questo virus: una malattia non si prepara, non la si programma, si vive come se non dovesse mai capitare; umilmente però bisogna sapersi dire: e perché a me no? E’ vero che in genere si ha piuttosto la tendenza a dire: perché a me?, ma è una cosa abbastanza egocentrica.

Guardare la malattia diffondersi certamente provoca un certo sgomento e ci possono essere reazioni molto diverse. Dalle più egoiste, che cercano la tranquillità in calcoli statistici che risparmierebbero se non la malattia, almeno la morte e degli altri ci si cura poco, a quelle che guardano con occhio cupo, come se ciò che accade fosse una punizione di Dio, a causa dei tempi che corrono, fino a chi non vuole pensare e non si cura di nulla. Eppure quanti appelli alla preghiera sono stati lanciati e pregare è sempre un atteggiamento di solidarietà; ci si fa carico degli altri, dei malati, di chi è all’orlo dello sfinimento per il lavoro medico o paramedico, delle famiglie che devono gestire una emergenza figli e per quanti non possono lavorare e rischiano gravi problemi economici.

Tutta la società è colpita, in un modo o in un altro e il cuore dei cristiani deve essere abitato da una vera compassione e dall’intercessione, ma anche dalla vera speranza che non suggerisce soluzioni al Signore, ma sa che tutto è per il bene. Siamo in Quaresima e questo essere destabilizzati ci conduce verso quella povertà di noi stessi che è il vero digiuno. Siamo costretti ad essere condotti, invece di andare dove vogliamo. C’è un digiuno dei progetti, digiuno dei programmi, digiuno anche dei piaceri della vita sociale. Intorno a noi troviamo tanti divieti, porte chiuse, appuntamenti e incontri annullati. Buona occasione per renderci conto che intorno a noi succede ciò che non vogliamo e il migliore atteggiamento è stare attenti e sposare il momento presente per scoprirne la ricchezza.

La parola pandemia è ormai di casa: vuol dire che siamo tutti chiamati ad essere solidali anche nella disgrazia, nell’ansia, nella preoccupazione  nella speranza. San Paolo dice che in Cristo non ci sono ricchi e poveri, uomini e donne, schiavi o liberi e di fronte a questa epidemia diventiamo ugualmente tutti vulnerabili. Purtroppo non posso usare la parola uguali, perché non credo sia onesto. I più poveri, i più deboli, i più fragili portano un peso più pesante, ma il fatto che siamo tutti vulnerabili è già un invito pressante a sentirci e mostrarci solidali gli uni degli altri.

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