Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore presso il dipartimento di scienze biomediche dell’Università degli studi di Milano venerdì 13 aprile è intervenuto al convegno «L’adolescenza interroga gli adulti: ragazzi ed educatori a confronto sui temi del disagio giovanile», organizzato dal servizio comunale torinese «Aria».
Per una mattinata oltre un centinaio di giovani in dialogo e a confronto tra loro e con gli insegnanti a partire da tre stati d’animo rabbia, noia, tristezza. Perché partire da queste emozioni?
Noi tutti le abbiamo dentro, sono nel nostro Dna, il problema di oggi è che viviamo in un tempo di diseducazione emotiva. Già i bambini, e poi di conseguenza gli adolescenti, non sono educati a gestire le emozioni che provano, non li si aiuta a dare un significato alle pulsioni che li agitano. Così sempre più ragazzi restano in balia di stati emotivi che li travolgono con conseguenze anche drammatiche. Non si tratta solo di «scaricarli» da questi pesi emotivi, ma di aiutarli piuttosto a conoscerli e a trasformali in qualcosa che può anche essere positivo.
Ma allora perché non si interviene?
Perché oggi per primi gli adulti sono in balia di emozioni che li distolgono dal ruolo educativo e poi hanno poco tempo… Anche quando riconoscono l’importanza del lavoro sulle emozioni che possono fare con i figli, non sempre sanno agire correttamente. La fragilità, la rabbia spaventano e si preferisce arginarle, confinarle, mentre bisognerebbe anzitutto mettersi in ascolto, farle emergere, distinguerle insieme ai ragazzi per poi regolarle, «misurarle». Aiutarli a chiedersi quale è il modo migliore per usarle bene.
C’è dunque un ruolo attivo dell’adulto nel momento della crisi emotiva del ragazzo, ma poi c’è anche un intervento che rischia di passare sotto traccia che è il modello che l’adulto riveste e che viene assorbito nel quotidiano. Che peso ha questo?
Ai nostri figli stiamo dando le chiavi di un futuro che non c’è. Il primo stimolo da offrire ad un giovane sarebbe quello di prospettargli un futuro bello che lo sta aspettando e invece noi rischiamo di togliergli questa speranza, riportando loro sempre i nostri fallimenti, le frustrazioni di una società complessa, dipingendo una realtà segnata dalla crisi. Forse senza neanche accorgercene proponiamo una visione depressa del mondo, triste, che non genera aspettative, desideri, che non fa intravvedere al giovane la possibilità di diventare quello che vuole essere. E senza proiezioni future positive il ragazzo rimane solo con la prospettiva del «qui e ora» e se il presente ha le sue difficoltà allora non ne esce… Bisogna cogliere con i ragazzi le cose belle che il mondo offre e far capire loro che ne potranno godere.
Ha parlato di mettersi in ascolto dei ragazzi, ma anche questo aspetto è difficile e non solo per questioni di tempo…
Sì, non si tratta semplicemente di starli a sentire ma cercare di essere empatici, di far capire loro che se ne condividono le emozioni. Non li si ascolta per fornirgli la risposta «giusta», li si ascolta sintonizzandosi con quello che stanno vivendo, guardandoli negli occhi, cogliendone le sfumature. Costruendo in questa dinamica i presupposti della fiducia. È questa la grossa responsabilità degli adulti in un contesto in cui anche lo sguardo è sempre più distolto, disabituato alle profondità delle emozioni perché sempre più abituato a fissarsi piuttosto su uno schermo… Poi ci sono i «modelli» di dialogo offerti dai talk show dove i ragazzi colgono il confronto verbale come la rappresentazione del prevaricare. Ci si preoccupa di fronte agli episodi di bullismo e non si pensa che il messaggio che spesso trasmettiamo è che diventare potenti con la prepotenza è meglio che conquistare l’autorevolezza con la competenza. I ragazzi assorbono e riportano tutto questo nel loro mondo in un periodo della vita in cui agiscono comunque sull’onda delle pulsioni e senza rendersene conto dal momento che modelli che vedono sono violenti. Il bullo non è empatico, perché a sua volta non ha sperimentato empatia, quello sguardo diverso con cui guardare l’altro.
Collegati al bullismo ci sono sempre più casi di suicidio tra i giovani..
Ci sono due tipologie di suicidi tra i ragazzi: un adolescente può trovarsi all’improvviso «intasato» da emozioni che non sa gestire. Lui o lei non comprendono neanche davvero che cosa significa togliersi la vita – e nei casi in cui il tentativo non riesce il «non immaginavo», lo stordimento della consapevolezza a posteriori, il «non so perché l’ho fatto» sono emblematici – ma è l’improvviso cumulo di emozioni che non sanno gestire, che non sanno esprimere, a far apparire il suicidio come la via di sfogo. Non si lasciano messaggi, spiegazioni perché non si è elaborato il gesto stesso. Poi c’è chi invece arriva a decidere di togliersi la per la progressiva disperazione e perché, come dicevo prima se il mondo degli adulti viene prospettato come negativo ma si sta già vivendo un «qui e ora» segnato dalla sofferenza, allora il suicidio diventa una liberazione da un dolore che sarebbe comunque ineluttabile.
Ancora una volta il ruolo degli adulti è dunque fondamentale nell’intercettare i disagi e nell’entrare in empatia, nell’instaurare relazioni salvifiche che aprono comunque a un domani migliore, che mostrano le tante vie che si possono intraprendere insieme per superare le difficoltà.