«La pandemia fa sperimentare in maniera inattesa e drammatica la limitazione delle libertà e fa riflettere sul senso della libertà in rapporto alla vita». Nella prima domenica di febbraio da 43 anni la Chiesa italiana celebra la «Giornata per la vita», quest’anno il 7 febbraio sul tema «Libertà e vita» che si collega all’altro documento «Alla sera della vita. Riflessioni sulla fase terminale della vita terrena» della Commissione episcopale per il servizio della carità e la salute e dell’Ufficio per la Pastorale della salute, sul tema del morire: la Chiesa dialoga «con gli operatori sanitari credenti e non credenti, con coloro ai quali è affidata la cura pastorale, con le famiglie che stanno accanto ai malati nella fase finale della vita e con chi affronta la sofferenza».
NELLE CASE PIÙ CANI CHE BAMBINI – Il problema non è tanto la libertà ma l’uso di essa. Osserva la Cei: «La libertà può distruggere sé stessa. Una cultura pervasa di diritti individuali assolutizzati rende ciechi e deforma la percezione della realtà, genera egoismi e derive abortive ed eutanasiche, interventi indiscriminati sul corpo umano, sui rapporti sociali, sull’ambiente. Un uso individualistico della libertà rompe le relazioni; distrugge la «casa comune»; rende insostenibile la vita; costruisce case in cui non c’è spazio per la vita nascente; moltiplica solitudini in dimore abitate sempre più da animali e non da persone». Nelle case degli italiani ci sono più cani che bambini. «Dire sì alla vita è il compimento di una libertà che può cambiare la storia. Ogni uomo merita di nascere e di esistere e possiede, dal concepimento, un potenziale di bene e di bello che va espresso e trasformato, un potenziale non cedibile», come disse Papa Francesco il 25 marzo 2020 nel 25° dell’enciclica di Giovanni Paolo II «Evangelium vitae»: «Ogni vita umana, unica e irripetibile, vale per sé stessa, costituisce un valore inestimabile» per cui non si stanca di ripetere: «Rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita».
DAI MALATI NESSUNA RICHIESTA DI EUTANASIA – Il documento «Alla sera della vita» evidenzia che cos’è la vita, perché non è disponibile, perché non esiste un «diritto a morire» né la «libertà di autodeterminazione del paziente». Ai cantori-propugnatori che strombazzano l’eutanasia e il suicidio assistito come un diritto, va ricordato come «in nessun hospice, cattolico e non, c’è mai stata alcuna richiesta di eutanasia», neppure durante questa orribile pandemia. Non è pensabile un «diritto a morire» perché se ci fosse dovrebbe esserci anche un dovere di qualcuno a porre fine alla vita, cioè a uccidere, cosa inaccettabile. Il malato che si prepara a concludere la vita deve restare al centro del sistema di cure. Determinante il tema delle cure palliative: la legge è buona, ma l’applicazione non è uniforme».
IL GRIDO DI GIOBBE – «Oh, avessi uno che mi ascoltasse» urla Giobbe (31,34), personaggio biblico del quale Francesco parla nel messaggio per la 29ª Giornata mondiale del malato. «Alla sera della vita» è un’espressione presa a prestito dal mistico spagnolo Giovanni della Croce (Juan de Yepes Álvarez, 1542-1591, co-fondatore dei Carmelitani). È il contesto delle relazioni a fare la differenza per cui buone relazioni rendono inutile il richiamo eutanasico e – dice il Pontefice – «l’ombra dell’eutanasia scompare o diventa quasi inesistente». Il documento afferma: «Le comunità cristiane sanno accogliere questa sfida: si tratta di non abbandonare nessuno nell’angoscia e nella sofferenza e testimoniare che siamo destinati a qualcosa di più grande, nella gioia del Risorto».
«PRENDERSI CURA DELLA PERSONA MALATA» – «Al tramonto della vita» si rivolge a tutti, non solo ai cristiani; valorizza al massimo il contributo della scienza; entra in dialogo con il sapere e l’operare di medici e operatori sanitari: «La sacralità della vita può essere riconosciuta da ogni intelligenza umana, credente e non credente». E sostiene la necessità di passare dal «curare la malattia» al «prendersi cura della persona malata» in tutte le sue dimensioni. In questa luce il grido di Giobbe, metafora del dolore e dell’abbandono, potrebbe avere una risposta. Dove ci si prende cura del malato, la richiesta di eutanasia e di suicidio assistito crolla.