«Non avalleremo una cambiale in bianco al fascismo». Un secolo fa al IV congresso del Partito Popolare Italiano, a Torino il 12-14 aprile 1923, don Luigi Sturzo sancisce la scelta antifascista del partito; chiede il mantenimento del sistema elettorale proporzionale; esige l’inserimento del fascismo nel quadro istituzionale. Alcide De Gasperi non escluse una collaborazione «dinamica» e ribadì la contrarietà alla «legge Acerbo», una truffa che garantiva la maggioranza elettorale ai fascisti. Vince la linea di don Sturzo che rifiuta l’assorbimento da parte dei fascisti. Un congresso di svolta e di lacerazione, fondamentale per salvare la dignità politica dei cattolici. Don Sturzo rivendica: «Come non abbiamo affermato che solo il Partito Popolare rappresenta la coscienza cattolica degli italiani, né mai abbiamo parlato in nome della Chiesa, anzi ci siamo affermati aconfessionali, così non intendiamo che altri in Italia, nemmeno i fascisti, possano pretendere tale rappresentanza».
Due anni prima don Sturzo e mons. Giovanni Battista Pinardi, vescovo-parroco di San Secondo a Torino, si conoscono e si apprezzano: hanno gli stessi ideali di libertà e verità. Quando è a Torino il segretario PPI è ospite della parrocchia per la notte e per la Messa. Si incontrano al congresso al «Teatro Scribe» (che ora non c’è più) in via Verdi. Il prete siciliano lo apre con un inno alla libertà e alla democrazia: applaudono i democratici; Mussolini lo bolla come «discorso di un nemico»; il giovane mons. Giovanni Battista Montini lo considera «di formidabile abilità dialettica». Costretto all’esilio e diretto a Londra, via Parigi, Sturzo trascorre l’ultima notte italiana, il 25 ottobre 1924, a Torino ospite dell’amico. Il 26 alle 5 celebra Messa. Pinardi lo accompagna a Porta Nuova e attende la partenza del treno.
Fautore della partecipazione dei cattolici alla vita politica ma rispettoso del «Non expedit» e assertore della coerenza tra vita religiosa e impegno politico, don Sturzo è antifascista fino al midollo e resta fedele all’idea che libertà e democrazia costituiscono un binomio inscindibile. Dopo la «Marcia su Roma» dell’ottobre 1922,
Sturzo non vuole compromissioni filofasciste né la partecipazione dei popolari Stefano Cavazzoni e Vincenzo Tangorra al governo di coalizione tra fascisti, liberali, nazionalisti e popolari. Lo dice a chiare lettere il 20 dicembre 1922 alla Camera di commercio di Torino: riafferma la validità del regime democratico e parlamentare.
Nel congresso di Torino Sturzo riesce a traghettare il PPI all’opposizione. L’iniziativa sturziana scatena la violenza fascista contro i circoli anche della Gioventù Cattolica. Per frenare l’irrompere dello squadrismo fascista e l’asservimento dello Stato il PPI aveva accettato, contro il parere di don Sturzo – che si era espresso a favore di una collaborazione con i socialisti – che alcuni suoi uomini entrassero nel governo Mussolini: Vincenzo Tangorra ministro del Tesoro e Stefano Cavazzoni ministro del Lavoro e Previdenza sociale. Il PPI affrontò duro dibattito interno sulla possibilità di continuare o meno la collaborazione. Il pericolo rappresentato dalla collaborazione era l’alienazione delle simpatie dei militanti.
Ma nell’aprile 1923 la collaborazione è troncata dal congresso, cosa che provoca le ire di Mussolini. Il partito visse una crisi profonda.
La Grande Guerra aveva sconvolto l’Europa e l’Italia. La «vittoria mutilata» del conflitto (1915-18), il «biennio rosso» (1919-20), la paura della Rivoluzione bolscevica (1917), il declino dell’Italia liberale e la nascita dei fasci di combattimento (1919) si riversano nei tre giorni del congresso di Torino: tensioni, conflitti e fratture. La necessità di svincolare il partito dalla «collaborazione «innaturale» è una delle preoccupazioni costanti di Luigi Sturzo. Il prete di Caltagirone si oppone a ogni cedimento al fascismo. D’accordo con lui e contro la collaborazione con i fascisti si schiera un giovane della Fuci e della San Vincenzo, il ventitreenne Pier Giorgio Frassati, figlio del direttore e proprietario de «La Stampa» Alfredo, esponente di un cattolicesimo di profonda spiritualità e di impegno socio-politico. Nei giorni della «marcia su Roma» Pier Giorgio scrive: «In questo momento grave della nostra Patria, noi cattolici e studenti abbiamo un grave dovere da compiere: la formazione di noi stessi. Non dobbiamo sciupare gli anni più belli della nostra vita, come fa tanta infelice gioventù, che si preoccupa di godere dei beni che portano l’immoralità della società. Dobbiamo temprarci per essere pronti a sostenere le lotte che dovremo combattere per dare alla Patria giorni più lieti e una società moralmente sana. Ma per tutto ciò occorre preghiera continua; organizzazione e disciplina per essere pronti all’azione; sacrificio delle nostre passioni e di noi stessi». Nel cortile dell’Università l’avvocato-scrittore e uomo della Resistenza Valdo Fusi si spogliò pubblicamente della divisa fascista perché un oratore aveva dichiarato incompatibile quella diuvisa con l’appartenenza all’Azione Cattolica.
Il PPI non salta sul carro del vincitore ma acquista in energia morale e nel risveglio di forze sopite. Don Sturzo la paga con le dimissioni, il 10 luglio 1923, da segretario del partito e con l’esilio. Tutto era iniziato a Torino nella difficile primavera di cento anni fa. Le elezioni politiche del 6 aprile 1924 assegnano al listone fascista 4.305.936 voti e 356 seggi. Tutte le altre liste raccolgono un dignitoso 35,1 per cento. Il PPI attira, tra i non fascisti, i più numerosi consensi (9 per cento). Il regime organizza spedizioni punitive e devasta cooperative e circoli cattolici; sopprime le libertà; mette fuori legge i partiti e ne arresta i capi; chiude i giornali; vara «leggi fascistissime»; cancella le elezioni e introduce il plebiscito; trasforma il Gran Consiglio in un organo dello Stato; di fatto sconfigge (per ora) quello che il dittatore chiama «il torbido e imbelle prete siciliano».
Pier Giuseppe Accornero