«Prima della guerra avevamo più di 200 ragazzi. Ora sono 140. Molti sono scappati, ma speriamo che presto decidano di rientrare con le loro madri e nonne. Speriamo, anche perché nella nostra zona al momento non è molto pericoloso ed è importante che le famiglie si riuniscano. Non possono continuare a vivere così divise, lontane…». A parlare è il responsabile dell’opera salesiana – oratorio e scuola – di Zhytomyr a 130 chilometri da Kiev, il polacco don Michal Wocial, in questi giorni a Torino per un incontro a Valdocco con il Rettor Maggiore e con Missioni Don Bosco che sostiene sosteneva prima, e ancor più in questo tempo, la congregazione in Ucraina (www.missionidonbosco.org).

«Noi salesiani», racconta, «gestiamo una scuola italo-ucraina che è stata fondata da un sacerdote emiliano, don Giuseppe Dossetti, nel 1994. Abbiamo ragazzi che vanno dai 6 fino ai 17 anni di età e un oratorio. Non siamo stati un campo di battaglia, ma già nei primi giorni di guerra siamo stati colpiti da missili che hanno distrutto una scuola vicina e sono morti dei civili; è stata colpita la centrale elettrica, una diga e un deposito di carburante, l’aeroporto.
Tutte le scuole sono state chiuse perché non avevano un rifugio antiaereo e chi non è fuggito in posti dove non poteva collegarsi seguiva attraverso Internet, così anche la nostra, ma abbiamo potuto tenere l’oratorio aperto frequentato da oltre 50 ragazzi, cercando di offrire loro speranza, distrazione, vicinanza. Intanto abbiamo svuotato le cantine e i sotterranei della scuola in modo da trasformarli in riparo in caso di bombardamenti e così quando il governo ha deciso che a settembre le scuole attrezzate potevano riaprire abbiamo accolto di nuovo in presenza i nostri studenti, anche se la guerra continua…». Per la comunità salesiana la guerra è stata una continua sfida non solo sul piano educativo e didattico, ma su tutto il fronte assistenziale: «Sin dagli inizi abbiamo evacuato con il pulmino dell’istituto centinaia di persone che ci hanno chiesto aiuto. Purtroppo già al sesto giorno di guerra si è guastato, ma grazie alla collaborazione con i Salesiani di Varsavia e di Torino nell’arco di una settimana è stato subito sostituito e così siamo riusciti a proseguire nei viaggi, sostenendo tante famiglie che volevano andare in zone più sicure. Poi abbiamo distribuito a più di 170 persone oltre 40 tonnellate di aiuti tra prodotti alimentari, per l’igiene e vestiti e abbiamo scoperto l’importanza delle attività dell’oratorio in un contesto di guerra perché offrire ai ragazzi la possibilità di stare insieme li ha aiutati a gestire, condividendolo, il dolore di una situazione che ha cambiato la loro vita proprio quando avrebbero dovuto affrontarla con la gioia e l’entusiasmo della giovinezza.
Così, per l’oratorio in particolare, stiamo cercando di offrire interventi di supporto psicologico perché dopo più di un anno ormai siamo tutti vittime». Cosa intende? «Ormai non c’è nessuno che non abbia perso a causa della guerra un parente, un amico, un conoscente e questa è una ferita molto profonda che rimarrà sempre nel cuore. La guerra ha condizionato tutti: chi ha visto altri partire ed è rimasto, chi percepisce ogni volta che suonano le sirene la paura. Anche se i ragazzi sembrano essere abituati e se a un certo punto nella scuola scatta l’allarme scendono in maniera ordinata nel sotterraneo e continuano lì le lezioni come se niente fosse, dentro di loro ogni volta che questo accade è una ferita che si apre.
Non ci si può abituare davvero a quello che si sta vivendo anche se sono passati tanti mesi: è una tensione continua e lo si capisce anche nei momenti di preghiera. Siamo una scuola salesiana e ogni volta che ci riuniamo per le celebrazioni il 90% delle intenzioni è legato al dolore per la guerra». Un tornare alla normalità che comporterebbe anche il rientro nel paese di tanti profughi che è un aspetto sul quale la Chiesa ucraina sta insistendo. «Abbiamo aiutato tanti ad andare via, a mettersi al sicuro lontano, ma anche se la guerra continua ora ci rendiamo conto che la separazione delle famiglie sta creando altri drammi, sta disgregando il tessuto sociale: la lontananza indebolisce le famiglie e aggiunge dolore.
I militari che rientrano dal fronte, alcuni magari anche resi invalidi dal conflitto, sono soli, lontani dai figli, dalle mogli, così l’appello che facciamo è che nelle zone più sicure, oggi meno esposte chi è andato via ritorni, anche se sappiamo che non è facile. Molte donne con i loro figli si sono inserite in altri paesi, hanno faticato a integrarsi ma più passa il tempo più può diventare complicato per loro ricominciare di nuovo, e questo sappiamo che genererà altra sofferenza». Chi sta tornando trova comunque un paese che per anni, al di là di quando finirà il conflitto, resterà segnato dalla violenza subita. «Uno degli aspetti che ci preoccupa», prosegue, «è la diffusione di armi illegali. Ci accorgiamo che molti che rientrano dal fronte non le restituiscono, che ne circolano anche tra i giovani. Tanti hanno imparato ad usarle e questo renderà più difficile vivere in pace perché la guerra genera un odio che può restare latente a lungo: anche quando sarà finito il confitto il risentimento, la rabbia saranno difficili da contrastare e avere armi a disposizione non può che rendere questo processo più lungo e complesso.
Per questo come salesiani che ci impegniamo soprattutto con i giovani cerchiamo di accompagnarli a non cedere a queste dinamiche. Nella scuola e in oratorio sappiamo che la nostra sfida oggi non è tanto sostenere la loro speranza di pace, perché i giovani per natura sperano, ma piuttosto combattere l’odio, non lasciarlo radicare. E un modo è offrire loro la risposta cristiana a quanto stanno vivendo. La guerra ha aperto la strada a tante domande di senso. Posso dire che in questi mesi in tanti hanno riscoperto la fede: nel campo di battaglia non c’è ateismo, ti accorgi della precarietà, che non sai cosa fare, hai bisogno di guardare oltre. E noi siamo lì per anche per questo, confessare, ascoltare, accompagnare e abbiamo fiducia».