«Non sono un ragazzo del coro»; «ministro dei lavoratori», «cristiano scomodo senza paura né vergogna». Cento anni fa, il 26 giugno 1919, nasce a Finale Ligure (Savona) Carlo Donat Cattin, giornalista, sindacalista, politico e ministro. Il padre Attilio, di origini savoiarde-torinesi, è impiegato di banca; la madre Maria Luisa Buraggi discende da famiglia nobile. Soldato nella Grande Guerra, Attilio è ferito e destinato al distretto di Savona, dove conosce e sposa la contessa Buraggi il 1° maggio 1916. Hanno 5 figli: Camillo, Carlo, Anton Paolo, Flaminio, Mariapia. A Torino dopo la guerra, Attilio è esponente del Partito popolare e dirigente dell’Azione cattolica. Gli impegni del padre influenzano Carlo che frequenta l’oratorio salesiano della Crocetta e la Gioventù di Azione Cattolica con Carlo Carretto e Armando Sabatini. Consegue la maturità classica al «Gioberti». Si iscrive a Filosofia ma non frequenta. Dialoga con il Cenacolo domenicano, si appassiona ai filosofi francesi Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier, studia economia politica.
Chiamato alle armi, il 25 luglio 1943 lo coglie ufficiale dei Granatieri a Montefiascone (Viterbo). Rientrato in Piemonte, è assunto all’Olivetti di Ivrea (Torino), entra in contatto con la Resistenza e dirige il settimanale «Il Popolo canavesano». La sua prima passione è il giornalismo: dagli anni Trenta collabora ai giornali dell’Azione Cattolica, «L’Avvenire d’Italia», «L’Italia» e poi a «Il Popolo nuovo». Redattore sindacale del quotidiano democristiana che in 13 anni (1945-1958) cambia quattro direttori – Gioacchino Quarello, Rodolfo Arata, Giovanni Re, Carlo Trabucco – e ha redattori di qualità: Domenico Agasso senior, Bona Alterocca, Gian Aldo Arnaud, Carlo Bramardo, Carlo Chiavazza, Giorgio Calcagno, Carlo Casalegno, Beppe Del Colle, Carlo Donat-Cattin, Anna Rosa Gallesio Girola, Domenico Garbarino, Piero Onida, Achille Valdata. Ma vende poco e nel 1958 Amintore Fanfani, segretario Dc, lo chiude. Tra l’altro il giovane Donat-Cattin segue i lavori della 25ª Settimana sociale dei cattolici di Torino «L’impresa nell’economia contemporanea» (1952).
Donat-cattin appartiene alla scuola della «presenza nel sociale» dei cattolici italiani esplosa nell’Ottocento e nel Novecento, di cui Torino e il Piemonte sono una delle «roccaforti» con i «santi della socialità»: non sono solo preti, frati e fondatrici di Congregazioni religiose ma anche laici, padri e madri di famiglia, giovani. Nati in famiglie cristiane, cresciuti nelle parrocchie, forgiati nelle associazioni giovanili, lanciati nel sindacalismo cattolico, esponenti di spicco nell’Azione Cattolica, nel Partito Popolare e nella Democrazia cristiana.
Fa la gavetta sindacale nella Torino industriale e operaia. Ha come maestri e referenti i privilegiati spiccate personalità come il novarese Giulio Pastore e come l’astigiano Giuseppe Rapelli. Assume vari incarichi nella struttura sindacale; punta alla costruzione di un sindacalismo cattolico strettamente collegato all’insegnamento sociale della Chiesa; si adopera nella difesa del sindacato di fronte ai potentati economici, denunciando in particolare i cedimenti filo-padronali («sindacato giallo») alla Fiat di Vittorio Valletta; ha un’attiva presenza nelle Acli. Alla fine degli Anni Cinquanta nel Pinerolese un’azienda vuole ristrutturarsi – certi fenomeni vengono da lontano – sbarazzandosi di buona parte del personale. Una grigia domenica alla vigilia del Natale quel cristiano spigoloso e quel coriaceo sindacalista varca i cancelli, si unisce agli operai che occupano lo stabilimento, parla e pranza con loro, li fa sentire meno abbandonati e soli, li invita a non mollare e a sperare. Quando stringe loro le mani per andarsene è ormai buio fitto.
Dal sindacato alla politica il passo è breve. Tre i fari ideali del politico Donat-Cattin: 1) crede fermamente e applica il dettame di Paolo VI: «La politica e la forma più della carità»; 2) considera la Dc nell’ottica sturziana del «partito di liberi e uguali»; 3) dice al congresso Dc 1986: «Dovete avere pazienza e comprensione, ma io non sono un ragazzo del coro». Più volte consigliere comunale e provinciale di Torino e nei comitati provinciale e regionale, nel 1954 è eletto nel Consiglio nazionale Dc e nel 1959 nella direzione del partito. Deputato dal 1958 e senatore dal 1979, è vicesegretario nel 1978-1980 e rappresenta la sinistra sociale, legata alla storia sociale e sindacale del movimento dei cattolici. Capo incontrastato dal 1964 di «Forze nuove», assume prese di posizione molto nette, caparbie e franche, talora aspre, dialoga soprattutto con la «Base», l’altra componente della sinistra democristiana. Ha un rapporto privilegiato con Aldo Moro e il legame si consolida nell’esperienza del centro-sinistra e si intensifica dopo il 1968. Pietre miliari di «Forze Nuove» sono i convegni annuali, in particolare quelli a Saint-Vincent in Valle d’Aosta, e le riviste «Settegiorni» (1967-74) che segna una stagione di vivace confronto; e dal 1983 in omaggio a Moro, che ne aveva coniato l’espressione, «Terzafase». Con il terrorismo e l’assassinio di Moro a Roma il 9 maggio 1978 le cose cambiano. Al XIV Congresso nazionale Dc del 1980con il «Preambolo», scritto di suo pugno, ribalta la maggioranza che guida la Dc – area di Zaccagnini più Andreotti – e mette una pietra tombale sulla «solidarietà nazionale» e sul «compromesso storico» tra Dc-Pci, maturato dal traumatico sequestro e assassinio di Moro. Avversa l’alleanza Dc-Pci perché vede in essa la saldatura fra i potentati economici, come la Fiat di Gianni Agnelli, e i comunisti interlocutrici del capitalismo perché detentori del potere nelle fabbriche. Rilancia l’alleanza con il Psi di Bettino Craxi.
Molto forte l’azione come ministro (17 volte). Dopo i primi impegni come sottosegretario alle Partecipazioni statali (1963-1968) si impone all’attenzione del Paese come ministro del lavoro (1969-72). È una fase molto acuta dello scontro sociale, il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, le bombe a Piazza Fontana a Milano (16 dicembre 1969), la strategia della tensione. La gestione dell’«autunno caldo» (1969) e l’approvazione dello «Statuto dei lavoratori» fanno del ministero del Lavoro e della Previdenza sociale un interlocutore privilegiato di Ministeri finanziari nella definizione e gestione della politica economico-sociale.
Nel 1968-69 il mondo del lavoro esplode ed erutta come un vulcano: scioperi, proteste, picchetti e rivolte. A Torino Gianni Agnelli diventa bersaglio degli operai furibondi: gli dedicano più filastrocche che a «Che» Guevara, più caricature che a Giulio Andreotti, più minacce che al segretario neofascista Giorgio Almirante. I giovani rivoluzionari salgono sugli autobus gridando «Paga Agnelli» e ritmano sui tamburi: «Agnelli, l’Indocina ce l’hai nell’officina. Pagherete caro, pagherete tutto». Il 3 luglio ’69 scontri davanti a Mirafiori. In settembre lo sciopero all’officina 32 blocca la produzione. La Fiat sospende 25.000 lavoratori. Con la mediazione del «ministro d’acciaio» Donat-Cattin, il 21 dicembre 1969 si firma il contratto dei metalmeccanici: 40 ore settimanali, aumenti salariali, diritto di assemblea. Sempre dalla parte dei lavoratori, innovatore nelle relazioni industriali, è consapevole dei pericoli di una incontrollata conflittualità. Lo «Statuto dei lavoratori» è il suo capolavoro, che divide a metà con il suo predecessore al ministero, socialista Giacomo Brodolini. Questi ne ha l’intuizione, Donat-Cattin lo perfeziona
Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno (1973-1974), si schiera contro le «cattedrali nel deserto». Ministero dell’industria (1974-1978) sviluppa un progetto di politica industriale, attivando un primo programma di risparmio energetico e sostenendo la necessità di una continua innovazione tecnologica. Ministro della Sanità (1986-1989), si impegna per la creazione di un sistema sanitario equo e non ha paura di sviluppare forti interventi in difesa del diritto alla vita e sul problema dell’Aids. L’ultimo impegno di governo dal luglio 1989 lo vede ancora ministro del Lavoro impegnato nella revisione del sistema pensionistico e presso la Comunità europea dove caldeggia politiche per la famiglia e per il lavoro.
Con la sposa, signora Amelia, va a confidare tutto alla Madonna Consolata nel suo santuario nel cuore di Torino. La sofferenza più devastante è la vicenda del figlio Marco coinvolto in fatti di terrorismo, arrestato, condannato, detenuto. Il ministro immediatamente si dimette. Il Pci di Enrico Berlinguer non gli perdona la fine del «compromesso storico» e lo ripaga con una volgare campagna.
Dopo la tragica morte nel 1988 su un’autostrada mentre tenta di scongiurare un tamponamento, Donat-Cattin scrive al presidente della Repubblica: «Caro Cossiga, ti ringrazio del biglietto che hai voluto con tanta premura e tanto affetto farmi giungere dopo la morte di Marco. La fede è faticosa per la mia logorata umanità. Eppure “tutto è grazia”. La prova più problematica è quella di mia moglie: un figlio, giovane, ma figlio che vivo lacera il cuore, viene ripreso giorno per giorno, per anni di carcere (tutti quelli stabiliti, senza privilegi né consentite condizionali), recuperato da un amore senza confini. Ti ringrazio per il pensiero che le hai dedicato. Cerchiamo di pregare. Ti abbraccio».
Il cattolicesimo sociale lo respira in casa dal padre; lo vive in famiglia; lo presenta in lezioni e conferenze, su giornali e riviste; lo applica in un sindacalismo coerente e coraggioso a fianco della classe operaia, impavido e anche «duro» quando tratta con i «padroni»; lo trasmette attraverso un giornalismo militante e graffiante; lo testimonia nella dialettica della vita di partito; lo porta nella vivace attività parlamentare e in quella vigorosa di governo come ministro. Per oltre quarant’anni protagonista della vita pubblica italiana – giornalista, sindacalista, politico, ministro – è una personalità complessa e impetuosa, battuta fulminante, penna corrosiva, tempra di lottatore, bastian contrario, bestia nera degli industriali ma è anche Suscitatore di molte generazioni di giovani impegnati verso il Paese. Lontano anni luce dai salotti. Trainante e coraggioso nel portare avanti i suoi convincimenti con assoluta franchezza e onestà, disposto anche alla impopolarità, è un cristiano scomodo. Il suo cuore cede il 17 marzo 1991 a Montecarlo. Ai funerali di Stato nel Duomo di Torino il cardinale arcivescovo cardinale Giovanni Saldarini lo saluta «cristiano scomodo senza paura».