Draghi punta sugli Its: “pilastro educativo”

Scuola – Cosa sono gli Istituti tecnici superiori, a cui il Recovery Fund riserva 1,5 miliardi di euro, 20 volte il finanziamento di un anno normale pre pandemia, il confronto con Paesi competitori dell’Europa

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Non è certo la prima volta che nel discorso programmatico di un Presidente del Consiglio dei ministri si dà centralità alla scuola. Anzi questo è un luogo retorico comune: un topos a cui sarebbe arduo trovare chi si sottrae, anche se dar poi corso alle dichiarazioni è stato finora un altro paio di maniche.

Nel discorso di Mario Draghi del 17 febbraio al Senato tuttavia, ad una lettura attenta risaltano alcune novità che meritano attenzione e qualche analisi. Innanzitutto per il posto che alla scuola, nell’economia generale del discorso è destinato. Dopo i rituali ringraziamenti, definito «lo spirito repubblicano del mio Governo», e il contesto internazionale in cui l’Italia deve collocarsi, Draghi affronta con metodo un’analisi. Parte da ciò che è sotto gli occhi di tutti: «Lo stato del Paese dopo un anno di pandemia» e, come in ogni analisi che si rispetti, subito dopo enuncia «le priorità per ripartire», la vera parte programmatica dell’azione a venire. Vista l’emergenza che stiamo vivendo la prima azione è il piano di vaccinazione e subito dopo, per non gettare l’esperienza fatta, la riforma della nostra sanità. Fin qui logica, pragmatismo, buon senso; ma subito dopo viene la priorità messa sorprendentemente al secondo posto: la scuola.

La parte dedicata alla scuola è lunga ed articolata. Urgenza del ritorno alla didattica in aula; revisione del calendario scolastico; innalzamento degli standard qualitativi con innesti di materie e tecnologie nuove; multilinguismo e competenze scientifiche e umanistiche coniugate insieme; formazione dei docenti. Sono temi non nuovi e almeno uno, il calendario scolastico, è un portato dell’emergenza sanitaria a cui le scuole hanno dovuto adeguarsi. Ma c’è ancora un ultimo tema: quello dell’istruzione tecnica. Quest’ultimo paragrafo merita particolare attenzione e prima di tutto una lettura integrale.

Eccolo: «In questa prospettiva particolare attenzione va riservata agli Itis (Istituti tecnici). In Francia e in Germania, ad esempio, questi istituti sono un pilastro importante del sistema educativo. È stato stimato in circa 3 milioni, nel quinquennio 2019-2023, il fabbisogno di diplomati di Istituti tecnici nell’area digitale e ambientale. Il Programma nazionale di Ripresa e resilienza assegna 1,5 miliardi agli Itis, 20 volte il finanziamento di un anno normale pre-pandemia. Senza innovare l’attuale organizzazione di queste scuole, rischiamo che quelle risorse vengano sprecate».

Questo passo è una novità assoluta; mai si è scesi così nel dettaglio e nella struttura generale del discorso, è forse tra i pochissimi temi così approfonditi. Questo non può che significare la grande importanza che Draghi gli attribuisce. Il passo però è importante soprattutto perché non si parla di istruzione tecnica, come pure sembrerebbe.

Chi scrive lavora da molti anni in questo settore dell’istruzione e ha potuto seguire il lento, ma costante declino che questo ha attraversato dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso ad oggi; passando da strategico per il Paese, che resta pur sempre la seconda manifattura d’Europa, a residuale, di seconda scelta da parte dei ragazzi, perché lo si crede addestramento al lavoro e privo di prospettive di crescita. Si pensi solo ai dati delle iscrizioni per l’anno scolastico che partirà il prossimo settembre: il 57,8 per cento degli studenti che stanno per uscire dalla media hanno scelto di iscriversi ad un liceo; l’11,9 per cento ad un istituto professionale; il 30,3 per cento ad un tecnico: meno di un terzo dei ragazzi che ogni anno passano dalla media alle superiori.

Chi scrive sarebbe allora ben felice che il Governo intraprendesse un rilancio degli istituti tecnici, pronto a combattere la guerra inevitabile che gli altri segmenti scolastici (la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado) e la filiera dei licei e dei professionali scatenerebbero, ma non è questo che si dice nel passo riportato.

Mal aiutato dai propri consiglieri, Mario Draghi non intendeva parlare degli Itis, ma degli Its.

Gli Itis sono gli Istituti tecnici industriali (la «S» sta per statali), che tra l’altro propriamente non si chiamano più così, anche se tutti continuano a farlo, ma Istituti tecnici del settore tecnologico (Itt) a seguito della Riforma Gelmini: gli atti normativi che sono stati emanati tra il 2008 e il 2010. Gli Its sono invece gli Istituti tecnici superiori, nati a partire dal 2010 e costituenti un segmento post- secondario non universitario, caratterizzato dalla estrema specializzazione tecnologica.

Agli Its si riferiva il Presidente del Consiglio quando li paragona al segmento presente in Francia e in Germania. E con quali differenze! Quando si pensa all’istruzione tecnica post-secondaria, vengono subito in mente le esperienze consolidate dei nostri vicini d’Oltralpe: le Fachhocschulen tedesche, le Scuole Universitarie Professionali svizzere, i percorsi per il Brevet Technicien Supérieur o per il Diplome Universitaire de Technologie in Francia. Ma queste istituzioni in Francia attraggono circa 600.000 studenti, 800.000 in Germania, l’equivalente italiano, i corsi biennali e triennali dei 104 Istituti tecnici superiori (Its) non hanno un numero significativo di studenti, circa 15.000.

Agli Its, dice il Presidente, il Pnrr stanzia 1,5 miliardi di euro, poiché si pensa possano rispondere ai bisogni di competenze poste dalla «globalizzazione, la trasformazione digitale e la transizione ecologica [che] stanno da anni cambiando il mercato del lavoro e richiedono continui adeguamenti nella formazione universitaria».

Proprio gli Its sono da 10 anni una novità nel panorama formativo italiano, in quanto fondata sulla connessione delle politiche d’istruzione, formazione e lavoro con le politiche industriali per sostenere gli interventi destinati ai settori produttivi e in particolare i fabbisogni di innovazione e di trasferimento tecnologico delle piccole e medie imprese che costituiscono il tessuto produttivo del Paese. Sono corsi post-secondari che vanno dai quattro ai sei semestri. Coprono sei aree tecnologiche: efficienza energetica; mobilità sostenibile; nuove tecnologie della vita; nuove tecnologie per il made in Italy (sistema agroalimentare, sistema casa, sistema meccanica, sistema moda, servizi alle imprese); tecnologie innovative per i beni e le attività culturali e il turismo; tecnologie della informazione e della comunicazione. Sono organizzati in lezioni teoriche e stage, non meno del 30 per cento della durata dei corsi è in azienda, mentre i docenti provengono, per almeno il 50 per cento dal mondo del lavoro.

Perché allora, se, come Draghi ribadisce – ma non è una informazione sconosciuta – «è stato stimato in circa 3 milioni, nel quinquennio 2019-2023, il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici [sic!] nell’area digitale e ambientale» gli Its non hanno un numero significativo di studenti, hanno invece un tasso di abbandono della frequenza rilevante, sono ostacolati dal canale universitario, di cui sono percepiti nel sentire comune come una scelta di risulta?

Ancora: il titolo, il diploma di Tecnico superiore, corrispondente al quinto livello del quadro europeo delle qualifiche (Eqf) e garantisce un buon livello di occupabilità, ma le aziende lamentano il ritardo con cui i giovani entrano nel mondo del lavoro.

Il quadro più efficace di valutazione del fenomeno Its lo possiamo trarre dalle parole che cinque anni fa Romano Prodi ebbe a dire. Partendo dalla costatazione di una mancanza, quella del filone della tecnologia applicata praticamente inesistente nel segmento dell’istruzione terziaria, ammette l’avversione dell’Università per la nascita e la crescita autonoma di tale filone e la distanza siderale del Parlamento da questi problemi che ritiene di poco interesse generale, di nicchia. Per cui: «La sperimentazione avviata nel 2010 degli Its (Istituti tecnici superiori) serve moltissimo, ma rimane ancora con numeri di iscritti troppo bassi. Moltiplicarli per venti sarebbe un primo obiettivo».

Romano Prodi viene dallo stesso milieu culturale in cui si è formato Mario Draghi e anche il primo è dotato di pragmatismo, per cui, interrogato il 23 gennaio del 2016 su cosa fare urgentemente, rispondeva con un obiettivo di sistema: rianimare l’intera istruzione tecnica e professionale e farlo attraverso quattro mosse: colmare il distacco dell’opinione pubblica dalla scuola tecnica; trasformare l’abbraccio dell’Università da mortale in sinergico; richiamare la disattenzione delle Regioni e riaccendere il poco interesse del mondo politico.

Possiamo dire che Draghi ha fatto proprie queste indicazioni e si propone di calarle in un’idea di scuola che si configura anche come collante dei territori e della società, motore di inclusione, aiuto alle politiche occupazionali: «Sottolineeremo il ruolo della scuola che tanta parte ha negli obiettivi di coesione sociale e territoriale e quella dedicata all’inclusione sociale e alle politiche attive del lavoro».

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