È bella questa Europa delle molte differenze, fatta di storie diverse, ricca di culture che convivono affrontandosi tra di loro. Bella e impossibile, come direbbe la canzone: impossibile o quasi da governare, esposta a mille tensioni e spesso litigiosa, anche quando la vorremmo vedere più generosa e coesa.
È lo spettacolo al quale abbiamo assistito in questi giorni quando, è venuto il momento di interpretare il risultato elettorale di fine maggio e tradurlo in una nuova squadra in grado di guidare l’Ue nei suoi prossimi cinque anni.
Era l’occasione per un ricambio totale dei massimi vertici delle Istituzioni Ue: dal presidente del Parlamento europeo a quello della Commissione, dall’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza al presidente del Consiglio europeo fino a quello – per un mandato di otto anni – della Banca centrale europea.
Si trattava di comporre un puzzle complicato: bisognava tener conto delle provenienze nazionali, distribuire le poltrone più importanti a profili personali di forte competenza ma anche rappresentativi dei principali gruppi politici, in particolare quelli della nuova maggioranza nel Parlamento e introducendo qualche elemento di innovazione rispetto al passato.
Criteri che sembravano fatti apposta per tagliare fuori nomi italiani, salvo che il nome fosse quello di super-Mario Draghi. Molto l’Italia aveva avuto nella legislatura precedente con Draghi, Tajani e Mogherini; i vincitori delle elezioni in Italia, Lega in particolare, erano nettamente perdenti nell’Ue e quanto alle competenze dei nomi italiani circolati meglio stendere un pietoso silenzio. Senza contare la confusione di voci, con Conte che provava a difendere una posizione a Bruxelles e i suoi vice-primi ministri che lo smentivano da Roma: uno spettacolo da Paese della commedia dell’arte.
Non stupisce quindi che a giocarsela siano state ancora una volta la coppia franco-tedesca, con i loro campioni nazionali. Ne è venuta fuori la sorprendente scelta della Germania che, abbandonata la scialba figura del popolare Manfred Weber, ha tirato fuori dal cilindro la ministra tedesca della Difesa, Ursula von der Leyen, per la presidenza della Commissione e l’accorta mossa di Macron che ha risposto con la francese Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale (Fmi), alla presidenza della Banca centrale europea (Bce); al liberale belga, Charles Michel, è andata la presidenza del Consiglio europeo, mentre il socialista spagnolo, Josep Borrell, diventa Alto Rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza.
Così alla fine, dopo un negoziato che rischiava di avvitarsi su se stesso, è stata messa in campo una squadra che non è il massimo per innovazione, salvo due donne ai due vertici più importanti, ma certo non per appartenenze politiche o nazionali, sacrificando però gli equilibri della potenziale maggioranza in Parlamento, scatenando il malumore dei socialisti per l’esclusione di un forte profilo come quello dell’olandese Frans Timmermans e provocando la dura opposizione dei Verdi: due reazioni che adesso si trasferiranno in Parlamento, rendendo difficili alleanze più ampie tra europeisti e i restanti percorsi di nomine, come nel caso della futura Commissione.
Non ci sarà quindi da stupirsi se adesso il Parlamento diventerà un’arena infuocata: il voto aveva suggerito orientamenti di centro-sinistra, i governi hanno fatto prevalere nelle nomine una maggioranza di centro-destra, disattendendo il voto europeo con conseguenze già nel voto del presidente del Parlamento.
Resterebbe da capire se non la strategia, almeno la tattica dell’Italia che, dopo essersi ribellata all’iniziale pacchetto franco-tedesco alleandosi con la banda di Visegrad, ha incassato una coppia franco-tedesca per le due poltrone più importanti, non proprio due profili da cui aspettarsi flessibilità sulla vicenda dei conti pubblici italiani.